La presunta love story (che La Repubblica definisce «ruvida») tra la preside del Liceo Montale di Roma e un suo studente maggiorenne coincide con uno dei punti più bassi toccati dal nostro giornalismo. Un pettegolezzo risibile trasformato in una sorta di Diario di uno scandalo de’ noantri, nella speranza che, a mano a mano, affiorino particolari piccanti, risvolti pruriginosi, conseguenze fatali. All’inizio il caso era stato presentato con accenti drammatici: un ragazzino manipolato, una dirigente scolastica sconsiderata e vanitosa, il licenziamento alle porte e il pubblico ludibrio. La preside denunciata dalle scritte sui muri del liceo artistico con la tipica, fatua crudeltà degli adolescenti. Non c’è stato nessun abuso, nessuna denuncia, e probabilmente gli ispettori del ministero non prenderanno provvedimenti. Nel corso dei giorni però, più si aggiungevano dettagli al feuilletton, con la stampa a frugare senza ritegno nella vita privata della donna e a ricamare ridicoli profili psicologici, più la vicenda diventava priva d’interesse, un affare privato, magari in grado di attizzare la morbosità di un microcosmo chiuso come può essere un istituto scolastico, ma che non dovrebbe suscitare l’attenzione dei media nazionali. E invece, da quasi una settimana, ogni giorno spuntano “indiscrezioni”, testimonianze, novità, particolari privi di peso spacciati per grandi scoop. Come quel video che ha fatto il giro della rete in cui la preside litiga con il suo vice perché avrebbe parcheggiato la motocicletta in uno spazio riservato ad altri. Cosa ne emerge? Nulla di che: rapporti tra colleghi scorbutici, ripicche e rancori, come accade in tutti posti di lavoro del mondo e la conferma che gli smartphone in mano agli studenti possono diventare delle pericolose armi da guerra. Perché siamo costretti a interessarci a tutto ciò? Ancora peggio è stata la sconcia pubblicazione delle chat tra i due sospetti amanti che, non si sa come, sono finite nelle mani di giornalisti tanto stupidi quanto inutilmente sciacalli.