Negli ultimi giorni lo hanno ripetuto in tanti, che se Ilaria Alpi fosse viva di certo il suo posto sarebbe in Ucraina. Magari insieme ai colleghi del Tg3, gli inviati che raccontano il conflitto dal terreno di guerra, e tutti gli altri che lo scorso 20 marzo l’hanno ricordata nell’anniversario della sua morte. Perché la guerra Ilaria l’aveva vista da vicino, a più riprese, fino all’ultima missione che gli è costata la vita, 28 anni fa, quando ne aveva soli 33. La storia è nota. Meglio, è noto che non c’è alcuna storia ufficiale. Sappiamo che il 20 marzo 1994 Ilaria Alpi è stata assassinata a Mogadiscio, in Somalia, insieme al suo operatore di fiducia Miran Hrovatin, 45 anni. I loro corpi furono trovati nei pressi dell’ambasciata italiana, dove si consumò l’agguato: una scarica di kalashnikov li aveva raggiunti a bordo di una Toyota diretta all’hotel Hamana, senza lasciargli scampo. Mentre chi aveva esploso i colpi, un commando di almeno sei o sette uomini, sparì nel nulla a bordo di una Land Rover. Sembrò subito un’esecuzione, un’operazione mirata. Anche se poi si parlò di un tentativo di rapina, di un sequestro finito male. Neanche sulle cause della morte, tra certificati spariti e perizie incrociate, c’è una versione univoca che abbia certificato se i colpi (o il colpo) alla tempia fossero partiti da vicino, come in un’esecuzione, oppure da lontano, come in un “agguato casuale”. A ripercorrere gli ultimi 28 anni di inchieste, commissioni parlamentari, indagini e processi - nei quali hanno sfilato dirigenti e funzionari della Digos, del Sismi e del Sisde - viene il mal di testa. I mandanti di quel duplice omicidio restano ignoti, impuniti. Non ci sono risposte, alle domande che Ilaria non aveva smesso di porre. Di certo c’è solo l’esito del processo di revisione a Perugia che nel 2016 ha assolto definitivamente il cittadino somalo Omar Hashi Hassan, precedentemente indicato come componente del commando dal “supertestimone” Gelle e condannato a 26 anni di carcere nel 2002. Un tassello, un errore giudiziario costato ad Hassan 17 anni di carcere, che si aggiunge a una sequenza di testimonianze contrastanti e depistaggi. Una catena di ipotesi e teorie in cui si fa strada la certezza che Alpi avesse scoperto un traffico di armi e di rifiuti tossici illegali nel quale erano coinvolti anche l’esercito e altre istituzioni italiane. E che per questo sia stata silenziata. Ma come ci era finita, Ilaria, dentro questo mistero che dura ancora? «1.400 miliardi di lire. Dove è finita questa impressionante mole di denaro? Alcune opere come la conceria e il nuovo mattatoio di Mogadiscio sono semplicemente inattivi », si legge tra i suoi appunti. In Somalia ci era arrivata nel 1992. Si trattava di seguire, come inviata del Tg3, la missione di pace Restore Hope, promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991. Ma Ilaria aveva una pista, e aveva deciso di seguirla fino in fondo. In poco tempo il suo volto era diventato il volto delle donne assediate dai conflitti, la voce di chi la guerra la subisce sulla propria pelle. Ed è per questo che non è così difficile immaginarla oggi lì, in Ucraina, dove si pesca a fatica la verità tra bombe, macerie e colpi di propaganda incrociata. «Non cerco giustizia, voglio solo conoscere la verità», ha ripetuto negli anni la mamma di Ilaria, Luciana Alpi. Che nel 2018 invece è morta senza aver ottenuto neanche un briciolo di ciò per cui si è battuta senza sosta.