La sola guerra combattuta da Giancarlo Siani nella sua pur breve vita, è stata quella contro l’ingiustizia e il malaffare. Le sue sole armi, una penna e un taccuino. Quando oggi, a più di 36 anni dal suo omicidio, dobbiamo ancora fare i conti con un conflitto che lascia sul campo mamme e bambini, giovani e vecchi, militari e civili, non possiamo esimerci dal constatare che una volta di più anche i giornalisti sono obiettivi sensibili. Uccisi certo in circostanze diverse, dal potere camorristico- mafioso Siani e dalla sete di guerra i reporter rimasti sul terreno in Ucraina, ma accomunati da una fine tragica: morire per raccontare. Che siano le faide tra famiglie rivali di Napoli o i bombardamenti degli aerei russi su Kiev, oggi come allora i reporter vengono uccisi perché non si sappia la verità. Perché nulla si sappia degli affari tra i “Nuvoletta” e i “Bardellino” e perché non si raccontino le atrocità di chi deve scappare da casa sotto i colpi dei mortai. Perché un capo clan alle pendici del Vesuvio non storca il naso leggendo il giornale e perché la gente di Russia non conosca la reale devastazione portata dal suo esercito con l’obiettivo di annientare il nemico. Che si voglia raccontare la verità pubblicando a 26 anni articoli sul Mattino o girando a 50 immagini che poi vengono mandate in onda da Fox News, poco cambia. Giancarlo Siani, in fondo, la sua guerra l’ha vinta. Non è qui con noi a raccontarla, è vero, oggi che avrebbe poco più di 60 anni e tanti pezzi ancora da scrivere. Ma sono gli articoli che ha scritto ad aver squarciato il velo di omertà e ipocrisia che c’era negli anni 80, e in parte c’è ancora oggi, quando si parla di camorra e guerra tra clan. Dopo la formazione classica Siani inizia a collaborare con alcuni periodici napoletani, fondando tra l’altro il “Movimento democratico per il diritto all’informazione”, simbolo della sua voglia di raccontare non solo sulla carta ma anche per le strade di Napoli ciò che velandola di criminalità rendeva opaca la brillantezza di quella città. Dopo alcuni articoli scritti per Il lavoro nel Sud, testata della Cisl, è con le corrispondenze da Torre Annunziata, scritte per la redazione di Castellammare di Stabia del Mattino, che comincia il suo viaggio nei meandri delle organizzazioni mafiose. Mattone dopo mattone, costruisce il ponte sul quale accompagnerà i napoletani a conoscere la verità sulle faide più nascoste. Quelle che stanno dall’altra parte del fiume, quelle che in fondo «sì, sappiamo quello che succede, ma non ci riguarda». E invece Giancarlo prima scava e le porta in superficie, poi prende appunti e unisce gli indizi, fino a scoprire la verità e rivelarla alla sua gente. Come in una riedizione in salsa partenopea del celebre mito della caverna, illumina Napoli di una luce nuova, mostrando la realtà dei fatti e descrivendola passaggio per passaggio. Nello specifico, quello che lo porterà alla morte è un articolo pubblicato il 10 giugno 1985, in cui informa l’opinione pubblica che l’arresto del boss Valentino Gionta è stato possibile grazie a una soffiata degli alleati Nuvoletta, che lo tradirono in cambio di una tregua con i nemici storici, i Casalesi. Dodici anni dopo, il 15 aprile 1997, la seconda sezione della corte d’Assise di Napoli ha condannato all’ergastolo i mandanti dell’omicidio (i fratelli Lorenzo e Angelo Nuvoletta, e Luigi Baccante) e i suoi esecutori materiali (Ciro Cappuccio e Armando Del Core). L’hanno ucciso con 10 colpi di pistola alla testa la sera del 23 settembre 1985 sotto casa sua a Napoli. Ucciso perché smettesse di parlare, perché smettesse di scrivere. Perché smettesse definitivamente di combattere la sua guerra e deponesse per sempre le sue armi. Gli avevano chiesto di arrendersi, lui non l’ha mai fatto. E noi, oggi, abbiamo il dovere di continuare a combattere quella stessa guerra con le sue stesse armi. Una penna e un taccuino.