L’invasione russa dell’Ucraina ha scompaginato l’album di famiglia del pacifismo italiano, mai così diviso e smarrito di fronte a una guerra d’aggressione che sembra togliere punti di riferimento consolidati nel tempo e rovesciare la stessa narrazione bellica del secondo dopoguerra. Durante la infinity war del post 11 settembre con la caccia a Bin Laden e l’occupazione di Iraq e Afghanistan da parte degli alleati anglo- americani milioni di persone sono scese in piazza nelle principali capitali dell’Occidente, Parigi, Londra, Roma, New York, Berlino. Contestavano la guerra di Bush Jr. e Tony Blair, il cinismo con cui Washington fabbricò le prove per colpire Baghdad e il suo regime, i bombardamenti sulle città, le vittime civili, i milioni di profughi. In fondo erano americani, arroganti cowboy: Corea, Vietnam, Medio Oriente, Yugoslavia, Somalia, lungo tre generazioni il movimento pacifista era abituato a protestare contro “l’imperialismo yankee” in tutte le sue versioni, dai conflitti “sporchi” degli anni 70 in Sudamerica, alla sbandierata esportazione della democrazia durante la lotta al terrorismo. Per la sinistra pacifista opporsi a quelle guerre e a quel mantra ipocrita da gendarmi del pianeta era un copione facile, facile, che poteva recitare a occhi chiusi. Il nemico poi, ce l’avevi in casa: i governi occidentali che seguivano le bellicose sirene del Pentagono, aggredendo paesi sovrani e violando le nostre costituzioni che «ripudiano la guerra». Per molti decenni il pacifismo è lievitato nella cornice della Guerra Fredda, quasi sempre anti- americano, sempre terzomondista, nella convinzione che le guerre siano lo strumento supremo del capitale per imporre il suo dominio sul mondo. Ma con la guerra di Vladimir Putin, che nell’immaginario di molti rappresenta un argine (ancor più psichico che materiale) ai progetti espansionistici della Nato a trazione statunitense, questo schema è andato in pezzi. È bastato cambiare gli interpreti, rovesciare i ruoli per buttare i principi storici del pacifismo. Come ad esempio il ritiro immediato delle truppe di occupazione militare come condizione necessaria per ottenere la pace. «Via le truppe da Saigon, via le truppe da Baghdad e Kabul!», gridavano giustamente i cortei di chi diceva no alla guerra “senza se e senza ma”. Poi c’era chi stava apertamente con i Vietcong e discuteva se inviare o no armi ai compagni vietnamiti e chi aveva posizioni più moderate, ma tutti esigevano il ritiro delle truppe. Perché non fanno lo stesso oggi con i militari dell’armata russa che da un mese martellano Kharkiv, Mariupol, Kerson e altre città ucraine? Non c’è forse un paese aggredito e un paese aggressore? I distinguo pelosi sul presunto “nazismo” dell’esercito di Kiev, sulle provocazioni dell’occidente con i suoi vizietti imperiali, sul fanatismo irresponsabile di Zelensky che manderebbe al macello il suo popolo mai si erano sentiti nel movimento pacifista storico. Come nessuno avrebbe mai impiegato l’argomento “realista”, secondo cui la superiorità militare russa è così schiacciante che non conviene a nessuno mettere i bastoni tra le ruote al boss del Cremlino e quindi bisogna sottostare alle sue condizioni. Una posizione rivendicata da ampi settori della sinistra radicale e non, ma anche da frange della destra sovranista e grillina, i primi per sincero anti- americanismo, gli altri per altrettanta sincera ammirazione nei confronti dello zar. Per costoro gli ucraini devono arrendersi e basta, concedere a Mosca quel che desidera (Donbass, Crimea e neutralità), altro che armi alla resistenza. È un pacifismo surrogato, che deriva di sana pianta dalla geopolitica ormai diventata una specie di disciplina olistica in grado di spiegare tutto, poco incline all’empatia e all’imparzialità, per il quale la pace conta solo se contrasta con le strategie dei propri avversari e il nemico del mio nemico è un mio amico. Usa e Ue sostengono la difesa militare dell’Ucraina? Allora Kiev deve arrendersi. C’è poi un pacifismo “ideale”, etico, autonomo dalle ideologie, che in questi giorni sta chiedendo ugualmente bandiera bianca all’Ucraina per evitare un ulteriore bagno di sangue di civili. Un po’ radicale gandhiano un po’ catto- comunista; è la tradizione della lotta non violenta che vede nella resa non un atto di viltà ma un gesto nobile, forse il più nobile di tutti. Da don Milani a Danilo Dolci da Aldo Capitini a Marco Pannella, contro tutte le guerre; magari utopico e ingenuo, ma l’unico rimasto credibile.