L’incendio ideologico è ormai scoppiato, e divora man mano ogni dibattito, ogni discussione mentre la guerra non solo non sembra trovare requie ma si avvita e si alimenta ogni giorno di più. Non è solo nei “social”, per via della loro grammatica binaria e della loro forma espressiva spiccia – perché l’incendio ormai dilaga sui quotidiani, in televisione, in tutta l’informazione, tra persone a modo o quanto meno abituate a modi affettati, e in ogni occasione di confronto, anche minima, se “per caso” si finisce a parlare della guerra, al bar, a cena tra amici, al lavoro. Ritirarsi nel bunker del proprio seminterrato e barricarsi dal mondo non è una opzione sul campo: non lo è perché la socializzazione è elemento dominante delle nostre vite, che viceversa ne sarebbero immiserite; non lo è per quel pizzico di vanità che ci caratterizza come esseri umani e che ha bisogno degli altri per sfoggiarsi; non lo è per quell’ansia di umanità e di verità che pur se impilata nel fondo del baule del nostro cuore è lì, e continua a palpitare.

Questa, perciò e ne va preso atto, è anche un guerra ideologica. Non solo tra democrazia e autocrazia – come racconta il mainstream occidentale. D’altra parte, è anche Putin che alimenta questo tipo di scontro; nel discorso trasmesso dalla tv russa Rt ha detto: «Mi rivolgo all’uomo della strada in occidente. Stanno cercando di convincerti che le vostre difficoltà sono il risultato di azioni ostili della Russia. Che dovete pagare di tasca vostra la lotta contro la minaccia russa. È una menzogna. I problemi che state affrontando sono il risultato delle azioni delle élite dominanti in Occidente. Non pensano a come migliorare la vostra vita ma solo a conservare i loro patrimoni e i loro profitti». Et voilà, Putin si offre come difensore dell’uomo della strada dell’occidente contro le sue élite autocratiche, e starebbe combattendo una guerra per noi. Le “narrazioni per la guerra” assumono talvolta caratteri grotteschi – ma anche questa non è propriamente una novità.

Questa invece è anche una guerra ideologica tutta dentro l’occidente, tutta dentro la democrazia. Per quanto uno possa provare a “neutralizzare” ideologicamente il conflitto, mostrandolo, come è, per uno scontro geopolitico tra potenze imperiali, in ascesa, in declino, alla ricerca del proprio lebensraum, del proprio spazio vitale – dentro le democrazie lo scontro è tutto ideologico.

Il risvolto della guerra militare in Ucraina è perciò la “guerra civile” ideologica in Occidente. Non tenere assieme le due cose è uno strabismo. E come ogni guerra civile, benché non armata, essa porta a dividersi e combattersi tra amici, parenti, persino dentro la famiglia, tra fratelli e nei rapporti di coppia. È sanguinosa, non sanguinaria.

Chiedere un “cessate il fuoco” al mainstream informativo in questa guerra civile ideologica è una pia illusione; durerà quanto durerà la guerra. Chi partecipa al “gioco al massacro” – per i motivi suddetti: obbligo alla socializzazione, vanità, verità e umanità – sa che andrà incontro alla fucilazione sul posto, a un accanimento di persecuzione. Non credo che le motivazioni “vittimiste” che vengono elaborate servano poi a granché. Anche perché il “gioco” si reitera – c’è sempre un plotone di esecuzione da approntare, c’è sempre qualcuno da fucilare, c’è sempre qualcuno che “si immola”.

Disertare questa guerra ideologica dentro l’occidente non è perciò una opzione praticabile: non ci sono colonne sicure per arrampicarvisi e viverci 37 anni come Simeone Stilita il Vecchio. C’è una sola pratica possibile: affrontare la guerra ideologica.

Ma è qui che le cose accappottano. Perché se è vero che le élite occidentali sanno benissimo qual è il loro posto ideologico e anche Putin sa benissimo qual è il suo – noi invece, uomini occidentali della strada, non lo sappiamo per nulla. Che questo non sia uno scontro tra destra e sinistra dovrebbe essere chiarissimo: Putin non è la “sinistra” del mondo, per quanto becera possa immaginarsi, e c’è una parte consistente della destra del mondo ( politica e sociale) che è invece al suo fianco; e se nelle élite è evidente l’ideologia sprocetata ( avida e ingorda) del capitalismo che forse persegue la guerra ma di sicuro nella guerra vede una occasione al proprio “rilancio”, la sua alternativa non la si può identificare nel regime di Putin – oppressivo, dittatoriale, autocratico, oligarchico, parassitario. È invece altrettanto evidente che tra gli uomini occidentali della strada la frustrazione e l’odio verso le proprie élite che non riesce a trovare uno sbocco politico finisca con l’assegnare a Putin il ruolo del proprio “angelo vendicatore”. È accaduto dentro il contagio, con le deliranti teorie complottiste su una élite pedofila e vampiresca e propagatrice del virus a bella posta che, pur essendo con molta probabilità “indotte” e pilotate, dentro la società si sono fatte strada. È a questo “sentiment”, come si usa dire adesso, che Putin fa appello.

La guerra civile ideologica in occidente si fa perciò per procura, è una guerra proxy, come si dice per l’Ucraina – dove gli ucraini farebbero la guerra alla Russia “per procura” degli americani ( Usa e Nato). Anche la nostra qui è una “guerra proxy”. Noi uomini occidentali della strada facciamo la guerra agli americani, investendo Putin di questo nostro compito “per procura”: perché se c’è un sentimento che aggalla in ogni occasione in questo paese è l’antiamericanismo.

L’America è il male assoluto – lo è per i filosofi moraleggianti, di destra e sinistra, che rimpiangono “l’autentico”; lo è per gli storici medievisti, di destra e sinistra, che hanno nostalgia del mondo cistercense, allora centro della globalità; lo è per gli analisti, di destra e sinistra, che computano dati economici e militari sbalorditivi che indicano la prepotenza americana, e si capisce che c’è invidia e gelosia.

Guardiamo cioè all’America con il rimpianto di quello che l’Europa non è più – come se fossimo vecchi aristocratici zaristi scappati via appena in tempo dalla Russia ormai bolscevica, chiacchierando e litigando in un bistrot parigino. Con il sopracciglio sollevato, non riusciamo proprio a capire questi ragazzotti cow- boy, sempre pronti a fare a pugni, convinti che ci sia il bene e il male – quando le cose del mondo, e lo sappiamo noi con la nostra millenaria esperienza, sono più sfumate, più complesse, più articolate.

Tra un mainstream interventista in nome dell’occidente e una diffusa “resistenza” in alto e in basso in nome dell’antiamericanismo ( anche riconoscendo alla Russia una sua storica “vocazione imperiale” nel suo “cortile di casa”, che è, per inciso, la medesima teoria di Theodore Roosevelt sull’America latina e il “diritto di intervento”) – sembra non esserci scampo.

Forse una strada c’è, è la più impervia e si chiama Europa, quell’Europa che ancora non c’è.