Nei primi anni 80 la musica scuoteva le cantine di Leningrado, le band nascevano come funghi e sfidavano i divieti di un regime ormai imbolsito, vicino al collasso ma pur sempre occhiuto e pedante: rock, punk, new wawe, fu un’ondata potente di controcultura, proprio come nei paesi occidentali, ma molto più underground. La città era vicina all’Europa e al mercato nero potevi trovare le musicassette dei Pink Floyd e dei Led Zeppelin, di Bowie e dei Clash, migliaia di giovani sono cresciuti con quelle colonne sonore a fare da contrappunto al grigiore della vita quotidiana in una società chiusa e iper-sorvegliata.

Erano gli eredi degli intellettuali che negli anni 60 e 70 affollavano il Saigon Caffé, fucina dei bohemien leningradesi dove si incontravano studenti, poeti, scrittori e... informatori del Kgb. Nelle loro canzoni non attaccavano direttamente il potere degli apparatchik, non scimmiottavano la contestazione non volevano “sparare sul quartier generale” o abbattere il sistema, semplicemente cantavano un mondo diverso, fatto di relazioni libere, aperto verso le altre culture e insofferente verso il conformismo ingessato del regime. Erano la spia del cambiamento che bussava alla porta, un’allusione precoce al crollo del socialismo reale, ermetici e profetici.

In quella temperie generazionale Viktor Tsoi è stata senza dubbio la stella più luminosa del rock sovietico, il “Jim Morrison russo” lo chiamano con un po’ di sciatteria i giornalisti per via dell’aria ribelle, dei testi complessi e poetici, dei capelli lunghi e per la morte prematura, a soli 28 anni, in un tragico incidente stradale. Era il frontman dei Kino, gruppo rock alternative che in russo significa “cinema” e che ancora oggi è un piccolo oggetto di culto nei paesi dell’est Europa. Sulla scena le band si moltiplicavano e cominciavano a avere anche dei cultori oltre la cortina di ferro: i Zoopark, gli Alissa, gli Auktion, i Leningrad center, i DDT da Leningrado, solo per citarne alcuni. Le autorità naturalmente non vedevano di buon occhio quei capelloni esagitati che picchiavano forte su bassi, chitarre, batterie, che celebravano una gioventù fatta di eccessi, di relazioni libertine, antropologicamente incompatibile con l’asfittica e granitica sobrietà sovietica.

In città non esistevano sale concerti, incidere un album era un sogno proibito e i servizi di sicurezza seguivano come ombre quei ragazzi quasi tutti schedati che si riunivano nei sottoscale, negli appartamenti condivisi per suonare e stare insieme. Erano talmente tanti che alla fine il governo di Leonid Breznev gli concesse uno spazio tutto loro: il Leningradskij rok- klub, nato nel 1981, quasi una rivoluzione.

La censura ti stava ancora appesa al collo, le spie del Kgb monitoravano ogni concerto, ma senza esagerare, senza calcare la, mano tanto che il club rimase aperto fino al 1991, anno in cui implose l’Urss. Viktor Tsoi era la vedette del Leningradskij rok- klub, il suo carisma naturale metteva in soggezione gli stessi censori, le sue canzoni, i suoi testi idolatrati dai giovani russi hanno varcato i confini nazionali e anche i decenni. Lo scorso anno, durante le manifestazioni di protesta in Bielorussia contro presidente Lukashenko, i ventenni in piazza gridavano i versi di Peremen (Cambiamento) uno dei brani più celebri di Tsoi: « Cambiamento! – chiedono i nostri cuori / Cambiamento! – chiedono i nostri occhi / Nelle nostre risate e nelle nostre lacrime / E nelle pulsazioni che attraversano le vene / Aspettiamo il cambiamento».

Oggi, la scena artistica russa è del tutto diversa, non tanto per il rock messo in un angolo in tutto il pianeta dalla musica elettronica e dai nuovi generi, ma nel suo spirito: decine di gruppi trap e rap identitari e nazionalisti che tessono le lodi del presidente Putin con testi che inneggiano alla potenza militare russa, pieni di insulti omofobi e sessisti. E chi non si allinea, come i trapper Husky Oxxxymiron, ostili alle politiche del Cremlino e alla guerra in Ucraina, vengono colpiti dalla mannaia della censura. Stesso discorso per le pussy riot che però non sono musiciste ma attiviste politiche. Insomma, si stava davvero meglio quando si stava peggio.