Può la leadership di un partito essere decisa da un'aula di Tribunale? Ha perfettamente ragione il professor Giovanni Guzzetta, quando, a proposito del caso Conte- M5S, sostiene sul Dubbio che la decisione del tribunale di Napoli non può essere liquidata come mera ingerenza delle toghe nella sfera politica. «Una dimensione altrettanto importante è quella che riguarda la tutela dei singoli e delle minoranze rispetto al potere delle élite che dirigono il partito, le quali se non contese e chiamate alla responsabilità rischiano di trasformarsi in oligarchie», scrive Guzzetta. «La domanda dunque è: come assicurare che le procedure non vengano sovvertite da maggioranze vere ( o presunte), che tali appaiono proprio perché quelle procedure sono state alterate?». Dunque, ai militanti grillini con meno di sei mesi di anzianità “politica” esclusi dal voto che ha di fatto incoronato Giuseppe Conte presidente del partito non restava altro che rivolgersi a un organismo esterno, un Tribunale civile, per avere “giustizia”. Nessuna ingerenza delle toghe, dunque, solo una risposta a una richiesta proveniente da alcuni cittadini.

Ma è proprio questo il nodo della questione: la trasformazione dell'attivista in normale “cittadino”, quasi un “consumatore” di un servizio, la politica, da tutelare nelle sedi opportune. È la conseguenza diretta della perdita di centralità dei partiti, diventati poco più che comitati elettorali, alleggeriti del carico novecentesco di “strutture” e visione comune. A essere scomparsa è la cultura politica dell'appartenenza. Così il diritto leso di un militante, lo strafalcione procedurale, la violazione statutaria non è più un affare da risolvere tramite gli organismi di garanzia interni. I panni sporchi vanno lavati dove c'è il sapone più efficace ( in Tribunale) perché una volta corrotti i rapporti interpersonali non resta più alcun collante a tenere insieme una comunità. Il Movimento 5 Stelle, da questo punto di vista, è l'emblema della fine delle organizzazioni politiche. Nato sul web, organizzato sulla base di un “non- Statuto” che invece di garantire orizzontalità ha sempre tutelato l'arbitrio del leader, si è lentamente trasformato in partito senza però mai dotarsi di strumenti veramente democratici al proprio interno. Un caos dove ogni tanto salta fuori un vecchio ( o nuovo) regolamento, magari ripescato da qualche email dimenticata, a giustificare questa o quella forzatura. E l'iscritto “consumatore” - che del suo compagno di partito conosce solo il nickname, e che con gli altri militanti non condivide nulla, se non una vaghissima idea di onestà - non si rivolge al tribunalino interno, non chiede un congresso, non presenta mozioni ma al massimo organizza class action per far valere le proprie ragioni.

È un cambio di paradigma che non riguarda solo il Movimento 5 Stelle, tocca tutti i partiti ormai sciolti nella società non per rappresentarla meglio ma per sparire. Succede persino al Partito democratico, che pure mantiene ancora una parvenza di struttura interna, quando, attraverso le primarie aperte a chiunque, scopre la propria fragilità. La scelta del segretario non è più figlia di un lungo processo di confronto che parte dal basso ( dalle vetuste sezioni), è la festa della democrazia ( così viene celebrata) in cui qualsiasi cittadino può decidere chi guiderà un partito al quale non è iscritto e che forse neanche voterà. Così, lo scontro tra gruppi di potere interno va in scena a colpi di denunce pubbliche sulla composizione del corpo elettorale in fila ai gazebo: «Cinesi», «rom», «stranieri», solo per citare le accuse realmente pronunciate da questo o quel ras locale dem nei confronti degli elettori del proprio rivale. E se lo “sputtanamento” non basta, anche da quelle parti ci si rivolge alla giustizia. Che, come sottolinea Guzzetta, non può far altro che il proprio lavoro. La politica, del resto, a svolgere il suo ha rinunciato da tempo.