La battaglia in corso sulla nomina del prossimo capo del Dap è, per la prima volta dopo tanti anni, al centro di un dibattito pubblico vero.

Dai toni aspri, ma vero. Non è chiaro se la notizia dell’intenzione della ministra Cartabia di nominare Carlo Renoldi, consigliere della Cassazione, sia stata fatta trapelare da ambienti ministeriali ostili, ma certo ben informati, oppure se la guardasigilli abbia democraticamente avviato un giro di consultazioni tra le forze di maggioranza per coglierne le indicazioni e qualcuno abbia lanciato il sasso nello stagno mediatico. Certo è che la designazione ha dato luogo a durissime prese di posizione contro il magistrato cui si contesta una posizione, come dire, “morbida” in materia di carceri e, soprattutto, di gestione del regime speciale, il cosiddetto 41 bis. Inoltre, il consigliere Renoldi sembra pagare qualche parola di troppo nei confronti del circuito dell’antimafia e dei suoi rituali. Le due cose, ovviamente, si tengono tra loro. In un paese in cui mafia e terrorismo hanno mietuto centinaia di vittime innocenti, è inevitabile che ci sia un gruppo di irriducibili che ritengono le politiche penitenziarie mai dure abbastanza nel far scontare ai colpevoli il prezzo delle loro scelleratezze. È comprensibile e si tratta di posizioni che meritano il massimo rispetto. Ma che non possono condizionare per decenni il dibattito sul sistema carcerario, sull’ergastolo ostativo, sul regime speciale di detenzione. La scelta del governo Berlusconi, nel 2002, di stabilizzare e conferire un assetto definitivo alla reclusione di 41 bis – dopo venti anni – merita di essere presa nuovamente in considerazione e non per indugiare a un ingiusto perdonismo, ma per fare un bilancio realistico, obiettivo, verificabile della necessità di mantenere in regime di isolamento centinaia di detenuti, anche dopo decenni di carcere. È un punto decisivo che viene costantemente tenuto lontano dal dibattito pubblico, sommerso da un profluvio di commemorazioni, anniversari, convegni e quant’altro che rendono difficile uno sguardo distaccato e sereno. In una nazione seria si dovrebbe pur stabilire se le mafie siano state o meno strategicamente sconfitte dallo Stato e siano state costrette a ripiegare su “semplici” arricchimenti e violenze minute senza alcuna possibilità di occupare più un ruolo egemone sulla società. Ovvero se, come qualcuno ipotizza, si siano acquattate da qualche parte e attendano tempi migliori. Sia chiaro: che le organizzazioni mafiose esistano e siano pericolose non lo nega nessuno, il punto è se lo Stato abbia conseguito successi tali da sbaragliare la bramosia di potere dei clan confinandoli (come in molte altre parti del mondo) al ruolo di gruppi criminali e di bande di malviventi. Ecco che la discussione sul prossimo capo del Dap deve essere ben accetta e costituisce un’occasione di confronto preziosa.

Soprattutto dopo il terribile pasticcio combinato dal precedente ministro della Giustizia nel caso Di Matteo, direttore in pectore misteriosamente messo da parte ai piani alti di via Arenula. Il punto centrale è se il carcere, in ossequio alla Costituzione, debba o meno avere al proprio centro la funzione rieducativa della pena e la riabilitazione del condannato o se debba restare pienamente assorbito dalla belligeranza dichiarata alle cosche oltre i suoi cancelli.

Perché ciò accada la dimensione detentiva deve acquisire una neutralità persa decenni or sono, quando le celle erano divenute covi di malaffare (la potente narrazione dello champagne all’Ucciardone); celle che lo Stato ha poi trasformato in un’ulteriore proiezione del campo di battaglia alle mafie estendendo entro le mura intercettazioni, sequestri, captazioni, regimi speciali. Recuperare la terzietà e la neutralità dell’espiazione della pena è la prima grande sfida, e ha bisogno di un capo del Dap adeguato che la politica deve scegliere senza timore di polemiche e senza porsi alla continua ricerca del placet del Politburo dell’antimafia.