La pezza, si sa, è spesso peggiore del buco, specie quando la si improvvisa. Vale anche per il modo in cui ho sentito e visto giudicare quell’aggettivo “sovietico” usato su molti giornali ma anche nel dibattito parlamentare svoltosi sulla guerra in Ucraina dopo la linea di fermezza esposta dal presiedente del Consiglio Mario Draghi. Che ha parlato della Russia e di Putin non dando del sovietico né all’una né all’altro, giustamente consapevole che l’Unione Sovietica, appunto, ha cessato per fortuna di esistere da tempo, dissoltasi spontaneamente, implosa e non esplosa per chissà quale bomba o missile lanciato da una qualsiasi delle tante postazioni della Nato create per difendersene. Invece - ripeto del sovietico è stato dato sia alla Russia, sia a Putin, sia ai soldati inviati in Ucraina dalla terra e dal cielo, con tanto di documentazioni fotografiche o televisive.

Lo si è detto e lo si è scritto - si è spiegato dai pochi, in verità, che hanno mostrato di esserne rimasti sorpresi e persino dispiaciuti, rimanendosene però zitti persino nei salotti televisivi di cui erano conduttori o padroni di casa - per sottintendere politicamente la nostalgia del regime sovietico che si coltiverebbe a Mosca. E che spiegherebbe l’aggressione all’Ucraina. In Putin sarebbe di particolare evidenza per la carriera fatta nei servizi segreti dell’Unione Sovietica in qualche modo propedeutica al suo arrivo poi al Cremlino, quando la bandiera rossa con la falce e martello era stata già ammainata da tempo e sventolava al suo posto quella della Russia.

Magari fosse solo questione di nostalgia del sovietismo e simili, mi verrebbe da dire pur da anticomunista che sono stato come elettore e come giornalista, arruolato alla fondazione del Giornale da Indro Montanelli e sottratto, con le scuse d’uso in quei tempi, al Giornale d’Italia di Alberto Giovannini, ma ciò nonostante amico ed estimatore di tanti elettori e giornalisti dell’altra parte, compresi quelli con i quali ho più frequentemente polemizzato: dal mitico Fortebraccio dell’Unità ad Aniello Coppola, da Emanuele Macaluso a Walter Veltroni, da Umberto Ranieri a Renato Venditti, da Claudio Petruccioli a Giorgio Frasca Polara, da Candiano Falaschi ad Antonio Caprarica, da Miriam Mafai a Piero Sansonetti. Col quale ultimo peraltro non ho neppure avuto occasione di polemizzare ma solo di collaborare, essendoci conosciuti e frequentati troppo tardi.

Magari, dicevo, fosse solo questione di nostalgia del passato, perché l’Unione Sovietica fu il prodotto di una rivoluzione, tragica come riescono d essere tutte le rivoluzioni, a cominciare da quella francese del 1789. Alla quale una volta si collegò Giancarlo Pajetta per reagire a tutto il sangue e a tutte le ingiustizie attribuite dalla rivoluzione sovietica. Erano insanguinate, mi disse una volta in privato quel polemista irriducibile, anche le “Crociate di Santa Romana Chiesa”.

Nulla di tutto questo, mie cari signori, sento di riconoscere, intravvedere e contestare a uno come Vladimir Putin. Che non vuole ripristinare i soviet nella sua Russia né esportarli nel mondo, a piedi o sui carri armati. No. Io sento e avverto quell’uomo solo come un predatore: di potere, di ogni tipo, e territori con tutto ciò che vi contengono. È qualcosa di più e di peggio del sovietismo, che aveva una sua visione della società e dell’organizzazione dello Stato. Era insomma un’ideologia, che ha mietuto milioni di vittime di certo, ma per la quale si sono volontariamente immolati in tanti, credendo alle loro bandiere e non confessandosi, una volta catturati dal nemico di turno, com’è capitato in questi giorni in Ucraina, di non sapere dove fossero stati mandati a combattere e uccidere e per che cosa.