Mentre Vladimir Putin combatte la sua folle guerra d'invasione con gli strumenti tradizionali dell'aggressione militare, l'Occidente l'Europa - sceglie la deroga ai propri principi, alle proprie legislazioni e ai propri obiettivi come arma di dissuasione e contenimento. In uno stato d'emergenza permanente, giustificato dalla pandemia fino a ieri e dal conflitto in Ucraina da oggi in poi, gli Stati e le organizzazioni sovranazionali assumono decisioni rapide e perentorie per “rispondere al fuoco” di Mosca senza ponderare però le potenziali conseguenze delle proprie scelte. L'Italia non fa eccezione. Anzi. Il nostro Paese figura tra le prime nazioni in procinto di inviare armamenti al governo ucraino. Missili Stinger terra- aria, dispositivi Spike anti- carro e anti- elicottero, mitragliatrici Browning ed Mg mortai e munizioni. Sarà questo il sostegno italiano alla causa di Kiev. Ma per renderlo possibile, l'esecutivo ha dovuto aggirare una serie di ostacoli giuridici che ne impedivano la realizzazione. A cominciare dal ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali scolpito dall'articolo 11 della Costituzione, per passare per una serie di leggi ordinarie, come la legge 185 del 1990 sull'esportazione di armi. Il problema non riguarda solo l'eventuale alterazione dei valori e dei principi costituzionali fondamentali, comporta anche problemi squisitamente pratici. In un contesto bellico in cui persino i civili vengono armati e addestrati per combattere strada per strada, in che mani finiranno gli “aiuti” italiani a conflitto terminato? Il processo di pace procederà senza intoppi? E se a beneficiare di mitragliatrici e munizioni fossero anche provocatori russi infiltrati tra la popolazione civile? La logica del «qualcosa bisogna pur fare» davanti all'offesa di Mosca non permette però di porsi troppi quesiti, né di pensare alle risposte. Così, con la scusa dell'Ucraina e del pericolo russo, anche Berlino ha deciso di porre fine alla storica fragilità militare della Germania con uno stanziamento di 100 miliardi di euro in armamenti. Una svolta epocale. La rinuncia a un esercito forte, figlia degli assetti scaturiti dalla fine della Seconda guerra mondiale, sarà solo un ricordo. Una virata, avvenuta in nome del “mondo libero”, che potrebbe cambiare in poco tempo gli equilibri europei e internazionali. La guerra però non cambia solo gli assetti e i principi, mette in discussione persino gli obiettivi europei. Come quello della transizione energetica. Italia e Germania, in particolare, Italia e Germania sono i paesi Ue più esposti dal punto di vista della dipendenza energetica da Mosca. Roma e Berlino sono già alla ricerca di alternative valide, provenienti soprattutto dall’Azerbaijan e dall’Algeria. Ma non saranno sufficienti a soddisfare il fabbisogno energetico degli Stati coinvolti. Serve dunque un’altra deroga. Questa volta ai progetti di transizione energetica del Vecchio continente per ridurre le emissioni. Lo sporco e vecchio carbone torna protagonista in Italia e altrove con buona pace del riscaldamento climatico e di ogni altro buon proposito. Ma il complesso sistema delle deroghe, con cui l’Occidente rischia di derogare a sé stesso, non finisce qui. Con la scusa della propaganda putiniana, Ursula von der Leyen ha annunciato il silenziamento dei media russi Sputnik e Russia Today, ritenuti a ragione diffusori di fake news per conto del Cremlino. Ma una democrazia liberale non può permettersi di imbavagliare d’imperio dei network, alle balle deve rispondere con l’informazione libera e corretta, non col bavaglio che rischia di diventare propaganda quanto quella che si vuole azzittire. Invece la presidente della Commissione Ue dice soddisfatta: «Russia Today e Sputnik, che sono controllate dal governo, e le testate a loro legate non potranno più diffondere le loro bugie per giustificare la guerra di Putin e creare divisioni nell’Unione. Stiamo sviluppando gli strumenti per vietare questa disinformazione tossica e dannosa in Europa. Introdurremo misure restrittive» . Ma a furia di restringere, il confine tra democrazie e autocrazie rischia di diventare sempre meno visibile.