Lo si deve ai cittadini e lo si deve alle Istituzioni perché queste possano riacquisire la credibilità che necessitano per operare: la riforma del Csm era uno step, per così dire, obbligato, da inserirsi necessariamente nell’ambito dell’ampio quadro riformatore voluto dalla ministra della Giustizia Cartabia. Tutti temi già discussi ampiamente e da tempo. Lo scrivente non a caso, già in sede di discussione di laurea, tanto tempo fa, portava come tesi proprio la divisione delle carriere tra magistratura giudicante ed inquirente, ritenendola un tassello più che mai indispensabile per una corretta gestione della Giustizia. Sia chiaro, sono principi necessari e indispensabili in uno Stato di diritto come il nostro; tuttavia, non si può negare come una simile impermeabilità del Sistema Giustizia sia stato anche principio di fenomeni distorti che, nella palude dell’autoreferenzialità, hanno avuto modo di crescere, proliferare e fermentare sino ad esplodere. Valutazione delle toghe che aspirano ad assumere ruoli presso la Suprema Corte, separazione delle carriere e stop alle cd. “porte girevoli”, che in passato consentivano ai magistrati di passare dalla carriera politica a quella giudiziaria quanto, quando e come volevano: questi i prospettati correttivi che il Consiglio dei ministri ha inteso approvare la scorsa settimana, andando ad emendare il disegno di legge A.C. 2681.All’art. 2, comma 3 del succitato disegno si legge sono infatti stati introdotti quelli che dovrebbero essere i criteri di valutazione dei togati. Potendo compendiare: (i) adozione di criteri che valutino oltre all’anzianità anche il merito e le attitudini; (ii) in ordine alle attitudini andrà considerato anche lo specifico ambito di competenza nel quale il magistrato ha operato (penale, ovvero civile); (iv) introduzione di criteri per la formulazione di un parere, emesso dalla commissione valutante, che possa dirsi oggettivo e, soprattutto, motivato, anche tramite l’utilizzo di giudizi quali “ottimo” o “buono”, che ricordano molto la scuola primaria, e solo il magistrato che viene valutato con il giudizio “ottimo” avrà la possibilità di entrare a far parte della magistratura di legittimità. Tutti criteri auspicabili e da tempo invocati, ma, nel concreto, come verranno fornite tali valutazioni? In maniera oggettiva, statistica, come disposto dalla lett. c) del detto articolo 2, comma 3 A.C. 2681. Oltre a valutare la capacità del magistrato di analizzare in maniera scientifica le norme, si richiede una valutazione che tenga conto degli andamenti statisticamente significativi degli esiti degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio. Quanto detto si traduce nel senso che segue: perché un togato possa accedere agli uffici della Suprema Corte di Cassazione, deve far sì che le sue pronunce non siano state riformate in appello, ovvero cassate, rectius, deve fare in modo che ciò non sia “statisticamente” rilevante al punto da costargli una valutazione negativa. Chi scrive ha apprezzato la soluzione valutativo-statistica suesposta, tanto che ritiene vada estesa a ogni livello, grado e promozione della magistratura. Si comprende che questo sia un terreno alquanto scivoloso e governato da instabili equilibri: da una parte la necessità di mantenere la magistratura libera da vincoli in sede di decisione, dall’altra l’opportunità di responsabilizzare gli Organi giudicanti – ma anche inquirenti qualora facciano esercizio dei loro poteri in maniera eccessivamente persecutoria – infondendo la consapevolezza che gli errori in qualche modo hanno un prezzo, ad esempio impedendo al Giudice di primo grado di ottenere una promozione in Corte d’Appello qualora le sue sentenze siano, statisticamente, ribaltate in secondo grado. L’esperienza storica e consapevolezza maturata dal potere giudiziario e dalla collettività in 76 anni di storia repubblicana, ci impone e consente, tuttavia, oggi, di effettuare una rivalutazione delle forze in gioco. Pertanto, si è appalesata con prepotenza la necessità di tutelare e ristabilire, seppur con tutte le garanzie costituzionalmente orientate del caso, l’indipendenza, terzietà e presunta imparzialità della magistratura, principi talvolta distorti, che hanno finito per alimentare la deresponsabilizzazione degli Organi giudicanti. Questo non può più ritenersi accettato, non alla luce del delicatissimo compito che sono chiamati ad assolvere, ma perché la Giustizia è amministrata in nome del popolo italiano ed il popolo è sovrano.