È la classica ansia dell’ultimo chilometro: di riforma del Csm, Parlamento e governo discutono da almeno tre anni, ma è negli ultimi tre giorni che si scatena l’esasperazione per i dettagli. Alla fine la riforma c’è: il Consiglio dei ministri ne approva, all’unanimità, il restyling firmato da Marta Cartabia, in una giornata, quella di ieri, che forse chiude il cerchio a trent’anni da Mani pulite. «Ricchissima e molto condivisa», è la sintesi che Mario Draghi dà della riforma. «Esigente con i giudici ma capace di rispondere anche a una loro esigenza: essere sostenuti nella riconquista dell’autorevolezza», spiega la guardasigilli. Capo del governo e ministra, in conferenza stampa, sono l’uno a fianco all’altra. Sereni. Sanno di aver portato a casa un compromesso sostenibile, ma ancora un po’ “aperto”, sul nodo diventato gordiano per le forze di maggioranza: le porte girevoli fra magistratura e politica.

I “DIVIETI DI RIENTRO” DALLA POLITICA

Ci si arriva a fatica. Al termine di una seduta rinviata di almeno un’ora e mezza. In fondo è strano che ci si concentri su un aspetto forse simbolico ma poco incisivo nella realtà. Nell’attuale Parlamento gli ex magistrati si contano sulle dita di una sola mano, eppure è nei loro confronti che la scure si abbatte con più violenza: non potranno più tornare alla giurisdizione. Saranno arruolati con funzioni dirigenziali, o anche semplicemente tecniche, nel loro ministero di riferimento (la norma riguarda tutte le magistrature, alla Giustizia andrebbero le toghe ordinarie, ma le amministrative per esempio finirebbero alla presidenza del Consiglio, oppure nelle sezioni consultive di Palazzo Spada). In ogni caso, di giurisdizione in senso stretto non si occuperanno mai più. E invece chi assume incarichi non elettivi - di ministro, sottosegretario o assessore negli enti locali - sarà sottoposto a uno stop di tre anni. Esattamente come chi tenta l’avventura elettorale e la perde, o come i magistrati chiamati, e sono assai di più, a funzioni di alta amministrazione, a cominciare dai capi di gabinetto. La stretta insomma c’è, ma non è così terribile. E anzi, sarà Cartabia a riferire di un’ulteriore deroga per le toghe sedotte dalla politica che non passano per il voto popolare: se il loro incarico, di governo o di alta amministrazione, dura meno di un anno, potranno tornare alla giurisdizione subito dopo il mandato. Correttivo chiesto in cabina di regia da Andrea Orlando, capodelegazione dei ministri dem. Il Pd è il partito che, anche nelle dichiarazioni a caldo, si mostra meno bellicoso in vista dell’esame parlamentare. Altri invece alzano il prezzo fino all’ultimo: Forza Italia innanzitutto, che fa slittare di un’ora e mezzo il Consiglio dei ministri, e quando la seduta inizia ancora non schiera i propri rappresentanti, accolti con un po’ di ritardo. Ma anche Movimento 5 Stelle e Lega fanno sapere di accettare la soluzione sui “divieti di rientro” con la riserva di riparlarne la settimana prossima in commissione Giustizia a Montecitorio. Probabile che nell’esame parlamentare diventino più severe le preclusioni per ministri e sottosegretari, rispetto a quanto previsto nel maxiemendamento condiviso ieri. Ci fa affidamento un’altra prima linea non rassegnata all’intangibilità del testo, il responsabile di Giustizia di Azione Enrico Costa.

DRAGHI: «NO FIDUCIA, NO MELINA»

Draghi sa che la materia degli incroci fra magistratura e politica resta fluida: vi fa implicito riferimento quando rivendica di essere riuscito, con Cartabia e il sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli (negli ultimi giorni spacciato dai partiti, con una certa improntitudine, come fantomatica pietra dello scandalo), a «delimitare le aree su cui permangono visioni diverse». Ne consegue il patto con le forze di maggioranza: «Non ci sarà la fiducia ma i capigruppo si sono impegnati a fare in modo che l’esame sia rapido». D’altra parte, gli fa eco la guardasigilli, «la riforma è ineludibile per una ragione imminente, la scadenza del Csm in carica, e», appunto, «per stare al fianco dei magistrati nel percorso di recupero della piena fiducia e credibilità, su cui c’era stato un richiamo importante del presidente della Repubblica».

CORRENTI NON “BANDITE”, ANZI

Altro lieve paradosso: il sistema di voto doveva stroncare le correnti e favorire le candidature al Csm di “battitori liberi” della magistratura. Tutt’altro. Certo, non sarà possibile presentare liste né sarà necessario un corredo di firme a sostegno (il che disinnesca uno dei 6 referendum di radicali e Lega). Ma come annunciato, il sistema è maggioritario, e prevede una quota proporzionale solo per la sezione dei togati “giudicanti”, da eleggere in appena quattro macro collegi, in ciascuno dei quali passano due candidati: difficile che non provengano dalle correnti più forti. Altri cinque consiglieri-giudici saranno eletti col proporzionale, ma in un sistema che premierà i network costituiti dai gruppi associativi minori (oggi ne beneficerebbero Unicost, Md, Articolo 101 e A&I, mentre il binominale sarebbe egemonizzato da Area e “Mi”). Outsider eletti? Solo in caso di miracolo. Appena due collegi, e senza proporzionale, per i 5 pm. Poi c’è il collegio per i 2 magistrati di legittimità: in tutto 20 togati e 10 laici (oltre ai tre componenti di diritto). Nulla di sconvolgente, insomma. Eppure, tutti a concentrarsi sulla storia di porte girevoli per le quali non passa quasi mai nessuno. Un ddl ampio e sottovalutato. Ci sarebbe molto altro: Cartabia evoca, significativamente, il voto dell’avvocatura sulle valutazioni di professionalità. Qui si registra un’altra novità interessante: si dovrà tenere conto anche della “tenuta dei provvedimenti”. Ad esempio, di un eventuale eccessivo numero di casi in cui un pm vede naufragare in assoluzioni le proprie richieste di rinvio a giudizio. A dire il vero, sembra anche più interessante, eppure sottovalutata - ma siamo alla fiera del paradosso - la stretta sui fuori ruolo: nei decreti attuativi si stabilirà un nuovo limite massimo, ma già la delega prevede che si debba scendere sotto l’attuale soglia dei 200. Non si potrà passare una vita fuori della giurisdizione, perché gli incarichi “extra” potranno durare complessivamente non più di 10 anni. Non ci si finirà da giovanissimi, perché 10 anni è anche il tempo che dovrà trascorrere dall’entrata in servizio prima di poter essere temporaneamente distaccati presso un ministero o un’authority. E poi c’è tutto il resto di un ddl molto ampio e in gran parte strutturato già dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede: stop alle nomine a pacchetto, come rivendica Cartabia, in virtù dell’obbligo di colmare i posti vacanti nell’ordine temporale in cui si liberano; addio ai capigruppo delle correnti in plenum, divieto di andare alla commissione direttivi, o alla “Prima”, competente sulle incompatibilità, per i consiglieri superiori assegnati come titolari alla sezione disciplinare. Chi giudica non nomina e viceversa: ma appunto, è un dettaglio che fa parte del ddl preesistente. Cade, come previsto, l’obbligo di iscriversi alle scuole di specializzazione prima di accedere al concorso per magistrati: idea che tende a scongiurare una selezione per censo. E poi molto altro, su cui forse le Camere non avranno neppure il tempo di levare lo sguardo. Ci sono due norme transitorie chiave: una riduce a 30 giorni il tempo lasciato al Csm in carica per la composizone dei collegi; l’altra esclude dalla blindatura delle porte girevoli chi, come il sottosegretario Garofoli, ha assunto o assumerà l’incarico prima dell’entrata in vigore del ddl. Ma anche qui, aveva già provveduto il precedente ministro della Giustizia.