In un sistema parlamentare com’è il nostro il presidente della Repubblica può anche rimanere lusingato da un bis reclamato dalle piazze intese in senso lato ma fare spallucce. E persino opporre, tra imballaggi e simili, qualche insofferenza alle insistenze, rivendicando direttamente o indirettamente il diritto a non farsi strattonare la giacca, e persino altri indumenti. Ma perde questo umanissimo diritto quando a reclamare il bis è il Parlamento che lo elegge. Così è praticamente accaduto in questa edizione davvero speciale della corsa al Quirinale. È accaduto a cominciare da quei 16 voti affacciatisi al primo scrutinio, diventati 39 al secondo, 125 al terzo, 166 al quarto, scesi a 46 al quinto - per lo sfizio, diciamo così, toltosi dal centrodestra di verificare in quel frangente la sua insufficiente consistenza con la candidatura addirittura della seconda carica dello Stato -, risaliti a 336 nel sesto e a 387 nel settimo. E sempre senza una designazione partitica, per scelta spontanea e libera dei senatori, deputati e delegati regionali.

I partiti, addirittura i tre più grandi della maggioranza di governo e quello unico dell’opposizione di destra di Giorgia Meloni, si sono spinti a cercare soluzioni persino anomale, a dir poco, come la candidatura per fortuna neppure decollata della regina degli 007. Che è persona degnissima, per carità. La quale mi scuserà la sbrigativa qualifica giornalistica che le ho attribuito, anziché definirla più correttamente e propriamente direttrice del Dipartimento di coordinamento dei servizi segreti: l’ambasciatrice di lunga e onorata carriera Elisabetta Belloni. Del cui ruolo delicatissimo avrebbero dovuto avere maggiore considerazione i partiti che l’hanno coinvolta in una vicenda impropria, considerando i compiti che svolge da sette mesi.

Ah, i partiti, croce e delizia della Repubblica, ai quali - dice l’articolo 49 della Costituzione - “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Essi stanno purtroppo attraversando una crisi a volte persino identitaria, dopo il crollo delle cosiddette ideologie, che si riflette sul Parlamento cui concorrono nelle urne con le liste dei candidati.

Nell’ultima crisi di governo, l’anno scorso proprio di questi tempi, la loro incapacità di accordarsi pur in un momento gravido di emergenze come quelle della sanità, dell’economia e della finanza costrinse il presidente della Repubblica a scegliere fra le elezioni anticipate, a rischio di trasformarle in occasione di ulteriori contaminazioni virali, e il ricorso ad un governo speciale come quello ancora oggi guidato da Mario Draghi. Al quale il Parlamento per fortuna concesse la fiducia costruendo attorno ad esso una maggioranza di unità nazionale, o quasi. Ecco, quello stesso Parlamento dopo un anno ha autonomamente e per primo avvertito, precedendo i partiti e i rispettivi gruppi della Camera e del Senato, il pericolo che l’elezione del capo dello Stato, alla scadenza del mandato di Mattarella, scivolasse rapidamente nella dissoluzione del governo e della sua maggioranza, pur perdurando le emergenze per le quali erano nati l’uno e l’altra. Ed ha cominciato a votare per conto suo Mattarella, appunto, uniformandosi più agli umori della gente comune - quella del bis reclamato nelle piazze - che alle convulsioni dei partiti, obbligandoli alla fine a rinunciarvi e a chiedere anch’essi al presidente uscente, attraverso i capigruppo dei partiti della maggioranza con tutte le formalità del caso, la disponibilità alla conferma nell’ottavo e ultimo scrutinio. A questo esito ha contribuito dietro le quinte anche il presidente del Consiglio.

Sembra un paradosso ma non lo è. Un Parlamento pur delegittimato da una riforma incauta, che lo ha invecchiato precocemente tagliando un terzo abbondante dei seggi del prossimo, che sarà eletto fra un anno, ha avuto più lucidità dei partiti, obbligandoli pur all’ultimo momento al senso di responsabilità. Viva il Parlamento. E grazie, Presidente.