Due sentenze - la prima della Corte Costituzionale, la seconda della Corte Europea dei diritti dell’uomo – riportano al centro il tema delle carceri nel dibattito pubblico italiano. Nel primo caso la Consulta - accogliendo l’interpretazione della Corte di Cassazione – ha riconosciuto l’illegittimità del visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto sottoposto al “carcere duro” - come previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario italiano - e il suo difensore. La Corte di Strasburgo è invece intervenuta riguardo ai due anni di detenzione di Giacomo Seydou Sy - in una struttura – il Carcere di Rebibbia - del tutto inadatto al suo stato di salute mentale. La Cedu ha evidenziato e condannato il trattamento inumano non per le pessime condizioni carcerarie, ma anche per la mancanza delle terapie idonee a curare il ragazzo affetto da disturbi della personalità e bipolarismo. Devono far riflettere le parole che si leggono nella sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo: “I governi hanno l’obbligo di organizzare il sistema penitenziario in modo da garantire il rispetto della dignità dei detenuti, indipendentemente da qualsiasi difficoltà finanziaria o logistica”. Secondo i giudici di Strasburgo non possono essere delle scusanti di un comportamento disumano la mancanza di fondi e di strutture. Da troppi decenni non si affronta veramente questo nodo, rendendo di fatto inattuato anche l’articolo 27 della nostra Costituzione che prevede che le “pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Avere carceri “umane”, capaci di accogliere i detenuti rispettando la loro personalità e garantendo i loro diritti non può essere un mero e vuoto impegno ma deve diventare una priorità per l’intero Paese e, in particolare, per chi ha responsabilità istituzionali e politiche. È una questione di civiltà giuridica e carceraria. Ed ecco perché le due sentenze della Consulta e della Cedu, apparentemente distanti, si legano tra loro in quanto pongono al centro i diritti. I diritti che hanno, e debbono avere, anche tutti i detenuti sia quelli condannati con sentenza definitiva sia quelli in carcerazione e preventiva e quindi presunti innocenti. Principio che deve valere anche per chi è anche “condannato” al regime più duro. Era inaccettabile – e bene ha fatto la Cassazione a sollevare la questione - che ancora vigesse, sono parole della Corte Costituzionale: “Una generale e insostenibile presunzione (…) di collusione del difensore dell’imputato finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”.Sono parole importanti che riportano al centro il ruolo e la dignità del difensore. Ed è un bene che la Consulta abbia deciso di intervenire dopo la sentenza di nove anni fa – la n. 143 - che aveva sanato la questione dei colloqui personali tra detenuto sotto regime 41 bis e il suo difensore. Il diritto di difesa deve essere al riparo da ogni controllo. La dignità e il rispetto del carcerato sono la misura di ogni Paese. La ministra Cartabia – pur nelle difficoltà insite nella composita maggioranza che sostiene l’attuale Esecutivo - ha indicato priorità e obiettivi per una “giustizia giusta” ponendo al centro anche la questione delle carceri. Dopo due anni di pandemia i problemi all’interno delle strutture penitenziarie si sono acuiti e le rivolte ad inizio dell’emergenza Covid 19 sono state solo la punta dell’iceberg. Realtà meritevoli come Antigone non mancano ogni giorno di riportare al centro del dibattito i problemi che i detenuti – senza dimenticare le guardie, gli operatori e i volontari - si trovano ad affrontare. Dopo l’elezione del Presidente della Repubblica è necessario che si indichi tra le priorità del dibattito parlamentare il ripensamento della giustizia e delle carceri in Italia abbandonando fanatismi e ideologismi. I due distinti casi sanzionati dalla Consulta e della Cedu sono spie d’allarme di un sistema che necessita di un vero e proprio cambio di passo; un cambio di passo indispensabile e non più procrastinabile.