Una rosa è una rosa. In questo caso sono due. Quella della destra è vero, può esserlo. Nel senso che Salvini è davvero tentato di andare fino in fondo, puntando sulla disponibilità dei 5S, magari non esplicita, ad appoggiare un candidato della destra. Il criterio con il quale è composta la rosa è proprio questo: nomi con un carattere istituzionale, passato o presente, almeno alcuni dei quali possano tentare sia i 5S che i 36 voti di Paolo Maddalena.

La sinistra gioca di rimessa, non presenta la sua rosa per replicare alla mossa della destra puntando invece ormai soprattutto su una drammatizzazione tale da rendere inevitabile la rielezione di Mattarella, e la mossa di Salvini sembra spianare la strada in questa direzione. Letta vorrebbe in realtà insistere su Draghi ma solo facendo di Mattarella il candidato reale della sinistra può sperare di impedire lo smottmento dei 5S verso l'uno o l'altro dei candidati della destra. Ma è un gioco pericoloso per tutti, perché nulla garantisce che il capo della Lega accetti di rompere con FdI per aggiungersi al coro di quanti chiedono a Sergio Mattarella di ripensarci e restare.

Il leader della Lega gioca in realtà con su diversi tavoli. Il primo schema è l'elezione di Draghi, con un accordo contestuale che definisca i futuri equilibri di governo. In sé non è una visione assurda. Il conflitto tra un premier forte che ha tenuto in pochissimo conto le richieste dei partiti e quegli stessi partiti sempre più scontenti del loro ruolo ancillare è montato inesorabilmente nel corso dei mesi e spiega la fortissima resistenza del Parlamento di fronte a un'elezione che, apparentemente, avrebbe dovuto essere quasi automatica.

Dunque se da un lato i partiti dovrebbero rassegnarsi ad accettare il ruolo centrale che l'ex presidente della Bce gioca in questo momento nella politica italiana, il premier dovrebbe rassegnarsi all'esigenza, in una Repubblica parlamentare, di mediare con i partiti, come gli suggerisce di fare Renzi che di queste cose se ne intende.

Dunque nella mossa di Salvini in sé non c'è nulla di discutibile. Il problema sta nelle richieste che il leader leghista, ma in modo più sfumato anche gli altri partiti avanzano: una trasformazione secca del dna del governo con la totale rioccupazione della cabina di regia. È una formula che Draghi non può accettare e probabilmente Salvini ne era consapevole sin dall'inizio. È plausibile che abbia intavolato una trattativa con la riposta intenzione di farla fallire, chiudendo così una volta per tutte il capitolo Draghi presidente. Ma nel caos di questa fase e i di questi giorni non è affatto escluso che le cose, con la spinta degli altri protagonisti o di alcuni di loro, prendano una piega diversa e che Salvini si ritrovi intrappolato nel marchingegno da lui stesso costruito.

Il secondo schema è probabilmente quello che piace di più al capo della Lega e che infatti ha scelto di praticare con la sua rosa. Passa per la ripresa dei rapporti amorosi con l'ex alleato e poi ex nemico giurato Conte. Si basa sulla resurrezione, non sia quanto effimera, del vecchio asse gialloverde. Si sa che Conte era più che disposto ad accettare la proposta Frattini: a bocciarla è stato Enrico Letta e con toni arroventati.

Ma i 5S non hanno abbandonato del tutto quella prospettiva, la disponibilità a votare il più accettabile tra i nomi proposti dalla controparte. Per Salvini sarebbe una tombola piena: centrosinistra spaccato, unità della destra mantenuta e per la prima volta un presidente compiutamente d'area. In più, con un presidente votato anche dal Movimento, per Letta diventerebbe impossibile parlare di imposizione da parte della destra. Ma in quel caso Letta non resterebbe a lungo segretario del Pd.

L'ultima chance, se Conte scegliesse di non rompere in modo probabilmente irreparabile l'asse con il Pd, sarebbe la spallata, cioè il tentativo di imporre una candidatura di destra ma camuffata sotto i panni istituzionali: la presidente del Senato Elisabetta Casellati, che al Colle pensa da quando nel 2018 fu eletta presidente del Senato e che in questi giorni è attivissima.

Per il Pd votarla sarebbe molto difficile, per i 5S ancora di più. Confluirebbero però su di lei i 36 voti andati nella prima votazione a Paolo Maddalena e a quel punto basterebbe un pugno di franchi tiratori a cinque stelle per chiudere la partita nel modo più brutale. Il governo, la maggioranza e la legislatura non sopravvivrebbero ed è questo che frena l'arrembaggio della Lega. Su questo punta Pier Casini. Proprio perché non messo in campo apertamente da nessuno costituisce una rete di protezione alla quale ricorrere, storcendo il naso, se proprio necessario.

Il limite di questa variegata collezione di strategie alle quali probabilmente altre se ne aggiungeranno di qui alla quarta votazione e oltre è che solo nel primo nell'ultimo caso, l'elezione di Draghi o la conferma di Mattarella l'assetto politico avrebbe qualche possibilità di non finire sgretolato dal terremoto non precisamente in una fase internazionale, economica e sanitaria tranquilla.