In una notevole intervista resa sulle colonne di questo giornale il 28 novembre 2021, lo storico Salvatore Lupo ha detto cose importanti sul versante del contrasto alla mafia e delle ideologie che ne stanno a fondamento. La questione, per così dire, ideologica - ossia l’identificazione delle regole giuridiche, sociali, morali che orientano la lotta alle cosche - costituisce uno snodo importante del dibattito che sta agitando le acque tutto sommato mai troppo navigate di questa discussione. La cosiddetta cultura dell’antimafia si è eretta, in questo ultimo decennio soprattutto, a monolite totalitario, troppe volte insofferente a qualunque critica e sospettoso verso ogni obiezione. A quanti, ai pochi che osano sollevare dubbi e suggeriscono riflessioni aggiornate o distinguo a grana fine, si contrappone facilmente l’accusa di voler far retrocedere la soglia della repressione, di essere sensibili a istanze pacificatorie o, peggio ancora, di essere conniventi con i clan. E siccome in questo delicato snodo della vita collettiva le parole pesano come pietre, in molti tacciono, qualcuno sospira, qualcuno ancora si occupa d’altro ritenendo tutto sommato che il variegato pantheon che compone la galassia antimafia sia un territorio infido da cui è meglio stare lontani e che non è mai conveniente inimicarsi. Insomma, è problematico criticare. Ma Salvatore Lupo ha, con l’onestà intellettuale che gli appartiene, puntato l’indice non sulle carriere, su quelli interessati al circuito dell’emergenza, sulle vestali di cerimonie e commemorazioni spesso popolate di soggetti impresentabili agli occhi delle stesse vittime, ma ha puramente e semplicemente affermato che tutto questo mondo vive in una visione culturalmente arretrata, da ancien regime. Recita lo storico: «L’antimafia degli anni Novanta è una forza, una componente formata da persone con responsabilità e funzioni istituzionali che ritengono di dover conservare un sistema di risposta alla mafia adatto al quadro di trent’anni orsono», molti in perfetta buon fede, sia chiaro. La questione è cruciale perché mette in discussione l’egemonia ideologica che ha sostenuto le scelte e le indicazioni di tutto questo importante fronte politico, sociale e istituzionale. Privati della convinzione per cui sussistono ancora le condizioni che hanno giustificato una certa visione della società, della politica, dell’economia e, quindi, della mafia, importanti spezzoni dell’antimafia si troverebbero sprovvisti di ogni riferimento “alto”, di ogni degna rappresentazione delle dinamiche sociali che considerano il piedistallo, anche etico, delle proprie ragioni. Rappresentazione che non era un inganno, ma che anzi era stata loro consegnata in decenni da una pubblicistica, però, divenuta nel tempo scadente, da serie televisive orgiastiche, da convegni parolai, da analisi adagiate anzi supine verso le risultanze processuali. Se, effettivamente, l’antimafia è diventata “nostalgica”, come dice Lupo, di un mondo che è venuto meno ed è incapace di leggere le coordinate più recenti della complessità, il problema è grave assai e proprio perché prolunga indefinitamente la sconfitta delle cosche nel Terzo millennio. Come quella impostazione - che ha radici lontane e nobili nella storia del paese - è stata indispensabile per la lotta senza quartiere sferrata dallo Stato dopo le stragi del 1992-1993; così la mancanza di un aggiornamento dei modelli interpretativi della società e dei suoi mille rivoli sta compromettendo ogni possibilità di vittoria verso le nuove manifestazioni dell’attività mafiosa che vengono solo mediaticamente declamate per qualche dollaro di pubblicità (il Covid-19, il Pnrr, i bitcoin, addirittura l’Isis). Qualcuno soffre di una perenne “annuncite” cui non seguono azioni concrete, processi, documenti, testimonianze. Ormai si ipotizza soltanto che la mafia abbia connessioni con la politica, con l’economia, con l’universo mondo, ma non si dispone un modello ideologico adeguato per approntare – e ci vorranno anni – una risposta di contrasto moderna e aggiornata. Così si vive imbalsamati in un tetro museo delle cere, in un parco della rimembranza da cui non si ha il coraggio di uscire per sfidare il nuovo che da qualche parte pur ci sarà o almeno dovrebbe esserci. Scrive Lupo: «Non esistano più i presupposti di quella reazione brutale operata trent’anni fa dallo Stato: pensare di perpetrarla non è utile né alla libertà né all’ordine». Si è incapaci di cogliere il segnale profondo che la Consulta sta consegnando al paese, anche in questi giorni. Importanti plessi istituzionali, la Corte europea dei diritti dell’uomo (sul caso Contrada), la Corte costituzionale (con il warning lanciato a proposito dell’ergastolo ostativo e con un’altra sentenza in tema di permessi premio di pochi giorni or sono), la Corte di cassazione (con la decisione a Sezioni unite in materia di riti di affiliazione) non stanno svolgendo alcuna pericolosa opera di “revisionismo”, né sono ispirate da un mellifluo “perdonismo”. Il punto è che stanno venendo meno – uno a uno – i baluardi ideologici di una certa antimafia. Un complesso di stereotipi, di generalizzazioni, di precomprensioni, talvolta di pregiudizi che costituivano il retroterra culturale e ideologico di un preciso orientamento interpretativo delle norme dell’emergenza e della società in generale, si sta sgretolando sotto i colpi di una diversa visione della società e degli uomini. Un’antropologia moderna, scevra da preconcetti (del tipo: «o ti penti o resti mafioso a vita» oppure «i figli dei mafiosi sono mafiosi in erba»), vuole semplicemente togliersi dal groppone (per citare il memorabile Sidney Poitier di “Indovina chi viene a cena?”) una retorica della mafia o una interpretazione della mafia che ritiene sia stantia, superata, parruccona, addirittura inconcludente. Tanto da ostacolare la vittoria sulle cosche, mica niente. Ecco perché le parole spese dalla Corte costituzionale nella sentenza che ha cancellato il visto di censura sulla corrispondenza tra avvocati e detenuti di mafia in regime di 41-bis, non è il viatico rilasciato da giudici “molli” per far consumare nuove efferatezze e dipanare nuove trame, ma la mera constatazione che non è proponibile in termini assoluti e generali lo stereotipo dell’avvocato complice, del consigliori del Padrino che sussurra all’orecchio. Scrive la Consulta che, certo, «non può escludersi in assoluto che tali ordini o istruzioni possano essere trasmessi anche attraverso l’intermediazione di un difensore; sicché l’estensione alle comunicazioni con i difensori del visto di censura potrebbe, in astratto, ritenersi misura funzionale a ridurre il rischio di un tale evento». E, poi, nella traiettoria di quanto sopra detto, la Corte assesta il più micidiale dei colpi all’ideologia di cui si diceva: «La disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione – già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 – di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso. Ruolo che, per risultare effettivo, richiede che il detenuto o internato possa di regola comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge o di regolamento che si siano, in ipotesi, ivi consumate». Si infrange così un altro totem, va in frantumi un altro dei molti corollari che sono stati eretti a giustificazione della cultura egemone dell’emergenza antimafia e si squaderna la fallacia degli stereotipi e dei pregiudizi che la alimentano. Una nuova lampada di Diogene che cerca nel buio di comprendere dove l’uomo mafioso si sia davvero nascosto.