È un patto gentilizio, un alleanza di ottimati, un’intesa tra maggiorenti e virtuosi. Ma soprattutto è il tabù più resistente della seconda repubblica: stiamo parlando dell’esclusione, quasi de jure, del centrodestra dalla corsa al Quirinale. Le reazioni isteriche alla stravagante e improbabile candidatura di Silvio Berlusconi sono soltanto l’aspetto più fastidioso di un pregiudizio profondo, che ha le sue radici nel secondo dopoguerra, ossia nel bipolarismo catto-comunista che disegnava il cosiddetto arco costituzionale. L’idea è semplice: la Costituzione antifascista può essere custodita solo dagli eredi di quelle due famiglie politiche che, guarda caso, da tre decenni costituiscono l’ossatura del centrosinistra. Nel corso degli ultimi 30 anni abbiamo avuto due presidenti ex democristiani (Scalfaro e Mattarella), un ex Pci (Napolitano) e un laico progressista (Ciampi). In nessuna di queste tornate un candidato proveniente dal blocco Forza Italia-An-Lega ha mai avuto la possibilità concreta di aspirare alla prima carica dello Stato. Si è negoziato senza problemi per le presidenze di Camera e Senato ma mai per il Colle. Ciò non vuol dire, come pretendono puerilmente in molti nel centrodestra, che a questo giro “tocchi a loro”. L’elezione di un presidente della Repubblica non segue logiche riparatorie o una turnazione meccanica. Ma neanche che vengano esclusi dalla corsa per partito preso, come a dover scontare il peccato originale di essere stati berlusconiani o comunque sodali del Cavaliere e del suo fantomatico progetto “eversivo”. La destra non è la landa dei barbari e al suo interno ci sono diverse personalità moderate, capaci di mediare tra i veti e i capricci dei partiti e di assumere un ruolo super partes. Continuare a considerarli degli appestati illegittimi è soltanto un vecchio imbroglio politico.