di Antonella Trentini*

È di quattro giorni fa la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha ritenuto ragionevole e per nulla eccentrica la norma che ha riformato l’abuso d’ufficio previsto dall’art. 323 del codice penale, in vigore dal 16/ 7/ 2020 ( art. 23, DL n. 76, recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale“, convertito in L. n. 120/ 2020).In una precedente breve riflessione (Il Dubbio del 30/ 7/ 2020), si era osservato che l’intenzione del legislatore mirava a “realizzare un’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture”, soprattutto in un periodo di “straordinaria” devastazione economica e sociale quale quello imposto dal Covid 19. E che siffatto lodevole intento non poteva che prendere atto di due esigenze: la semplificazione delle procedure d’appalto ed edilizie senza compromissione delle esigenze di legalità da un lato, e dall’altro, poiché “semplificare” significa “agevolare, facilitare una procedura” - che in taluni settori rimane compressa sotto la cappa del timore di sbagliarne applicazione/ interpretazione della stratificazione normativa che affastella la nostra vita quotidiana sino a rimanerne schiacciata - occorreva restringere la portata applicativa dell’ipotesi incriminatoria più dilatata (e quindi più temuta) dai pubblici funzionari ed amministratori, l’abuso d’ufficio. A distanza di oltre un anno da quelle riflessioni “a caldo”, la loro bontà è ora scolpita dalle motivazioni trasfuse dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 8 del 18/ 1/ 2022. La Consulta prende atto che non è sbagliato “dare fiducia” a chi si è dovuto difendere dall’astrattezza, soprattutto in un momento storico in cui l’interesse pubblico primario è ripartire e non andare a caccia di interpretazioni (magari) errate di norme oscure da parte della burocrazia e degli amministratori. Si rammenta che tale ipotesi incriminatoria ha spesso portato a procedimenti contro amministratori e dipendenti per lo più conclusi con assoluzioni e tanta tribolazione, sì da portare gli interpreti a coniare la categoria metagiuridica di “burocrazia difensiva”, per indicare forme di immobilismo protettivo, termine oggi fatto proprio dalla Consulta. Non si può tacere il fatto che da anni sono in «crisi» i due capisaldi della cultura giuridica, cioè il principio di legalità e il principio di certezza del diritto: dove la legge perde la sua tradizionale centralità, predomina l’incertezza delle regole giuridiche. Incertezza che in taluni Enti, ad esempio gli Enti Locali si avverte molto, dato che per dare risposte è necessario avere chiare le regole da applicare. Ma se la qualità della produzione normativa è scadente e le fonti del diritto sempre più stratificate (transnazionali, leggi, DL, DM, Authority, indicazioni “soffici”, ecc.), se la giurisprudenza oscilla tra decisioni di segno opposto anche su casi analoghi, come si può pretendere di accelerare procedimenti complessi, individuando senza margine di errore le regole da applicare ai casi concreti? È un fenomeno sconvolgente per gli enti locali, ancorati da sempre alle rassicuranti certezze e dogmi per i quali un ordinamento è tale in quanto per definizione è in grado di rinvenire all’interno di se stesso gli elementi che consentano di superare eventuali contraddizioni e antinomie o colmare possibili lacune. La Consulta ha ben compreso che lo strumento indispensabile per poter lavorare e di conseguenza far riacquistare a funzionari, amministratori, imprenditori, cittadini la fiducia e, con essa, l’impulso all’economia, è sì semplificare, ma soprattutto delineare le norme penali affinché sia chiaro il contorno del lecito da ciò che non lo è. Che la “certezza delle regole” rappresenti un fattore di sicurezza non è un quid novi; e se manca più facile è sbagliare per il cittadino, per il funzionario, per l’amministratore; ma se per il privato significa rimetterci in proprio, per la P. A. significa responsabilità erariale, amministrativa, e penale a carico dei responsabili, sui quali vengono troppo spesso riversati gli errori di normative troppo frettolose, di difficile applicazione, con passaggi troppo bruschi tra ' vecchi' e ' nuovi' regimi. Alla Consulta non è quindi parsa né “eccentrica”, né “assolutamente avulsa“ la modifica operata dall’art. 23, d. l. 76/ 2020 che ha sostituito l’astratto reato di evento e a dolo intenzionale, con una fattispecie in cui l’evento ingiusto (vantaggio patrimoniale a proprio o altrui favore o l’ingiusto danno altrui), è conseguenza della violazione di regole di condotta specifiche e previste espressamente da leggi o atti equiparati, da cui non residuino margini di discrezionalità. Di conseguenza il funzionario/ amministratore non potrà essere perseguito ai sensi dell’art. 323 c. p. quando lo spazio di discrezionalità gli consenta di scegliere le concrete modalità per la realizzazione dell’interesse pubblico prefissato. La Consulta ha messo un punto fermo rilevante. (*Presidente Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici)