Montecitorio, primo pomeriggio, Transatlantico off limits causa distanziamento. Fuori nuvoloni e schiarite, meteo distratto che ben rappresenta l’incertezza di queste giornate d’attesa. «Non si era mai visto, nella storia repubblicana, un presidente del Consiglio in carica che portasse avanti un’autocandidatura per il Quirinale in maniera così esplicita». La frase, chiaramente riferita alle ultime mosse di Mario Draghi in vista dello sprint finale per il Colle, non lascia spazio a interpretazioni. Ma quel che più conta è che non arriva da un qualsiasi parlamentare leghista o grillino, che per paura di elezioni anticipate non sposterebbe l’ex presidente della Bce da palazzo Chigi nemmeno se obbligato, ma da un insospettabile fedelissimo di Matteo Renzi. Sì perché la salita dell’ex governatore di Bankitalia al Colle non è ostacolata soltanto dall’incertezza che questa scelta creerebbe nel futuro della legislatura, ma anche dai suoi più diretti sponsor al momento del cambio, nel febbraio 2021, tra Conte e Draghi alla guida del governo. Allora furono infatti i renziani a far cadere prima l’esecutivo giallorosso, ritirando le proprie ministre, e poi mandare all’aria ogni tentativo, rivelatosi vano, di dar vita a un Conte ter che imbarcasse anche una pattuglia di celebri “responsabili”. Come non ricordare i tavoli di lavoro in cui il presidente della Camera, Roberto Fico, cercava di trovare una quadra tra le diverse forze della maggioranza appena sfaldatasi per cercare di crearne una nuova, su basi diverse ma che contasse su numeri più o meno simili. Con relativo tergiversare degli esponenti renziani, che dettaglio di qua dettaglio là, prendevano tempo in vista della scadenza del tempo concesso dal capo dello Stato per trovare una soluzione. Che puntualmente non venne trovata, con la conseguente chiamata alle armi del “generale” Draghi. E via a stappare bottiglie di champagne a Rignano sull’Arno e dintorni. Da allora è passato poco meno di un anno, sia il Pnrr che la campagna vaccinale hanno raggiunto gli obiettivi prefissati e Draghi giudica terminato il suo mandato, così da poter aspirare senza troppi fraintendimenti a soggiornare per sette anni in quel che fu il palazzo dei Papi. Ma proprio coloro che favorirono l’arrivo di Draghi a palazzo Chigi, oggi sembrano non volerlo al Quirinale. O meglio, contestano con forza i modi con i quali l’ex presidente della Bce si sia autocandidato, nell’ormai famosa conferenza stampa di fine anno, alla carica di capo dello Stato. Non solo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il giro di incontri che il presidente del Consiglio ha avuto negli scorsi giorni prima con il presidente della Repubblica al Quirinale (così da dare adito al solito, imperdibile titolo del manifesto: Il sopralluogo) e poi con il presidente della Camera, Roberto Fico, a Montecitorio, con il quale Draghi si è intrattenuto per più di un’ora. A gettare acqua sul fuoco prova Luciano Nobili, secondo il quale «la novità sta semplicemente nel fatto che non è mai successo che un presidente del Consiglio diventi direttamente presidente della Repubblica» ma «Draghi si sta muovendo con grande rispetto istituzionale». L’importante, prosegue il deputato, è che «resti in qualche modo guida per il Paese, vista la sua autorevolezza e i risultati del suo lavoro». Nel frattempo la pattuglia di grandi elettori di Italia viva si allarga, grazie all’arrivo della senatrice Elvira Evangelista, che martedì aveva lasciato il Movimento 5 Stelle e ieri è approdata alla corte del renzismo. «Ho deciso di aderire a Italia viva per una sofferenza che provavo dentro il Movimento a causa di una linea politica che non poteva appartenermi - ha detto la senatrice - la mia formazione giuridica, da avvocato, mi porta a valutare le questioni avendo come faro la Costituzione, che è garantista, non giustizialista». Non sarebbe un paradosso, in fondo, se dovesse scoprire che i diktat dei suoi ex colleghi grillini sul capo dello Stato sono gli stessi dei nuovi compagni di partito?