Vengono considerati pericolosissimi, favoreggiatori dell’immigrazione clandestina e al pari della criminalità organizzata. Tanto che nei loro confronti, soprattutto da parte dei pubblici ministeri siciliani, si usa un duro approccio antimafia. D’altronde i loro reati rientrano nel 4 bis dell’ordinamento penitenziario, ovvero quelli ostativi ai benefici. Parliamo dei cosiddetti “scafisti”, coloro che conducono l’imbarcazione carica di migranti con cui ha attraversato il Mediterraneo. Spesso questi presunti scafisti sono in realtà persone normali, non appartenenti a nessuna organizzazione, ma che sono state costrette a guidare una barca dai veri trafficanti. Eppure finiscono in carcere, in regime ostativo.

Gli studi sul diverso approccio antimafia per i soggetti deboli

L’argomento è stato oggetto di studi internazionali. A partire da una interessante pubblicazione del 2020 da parte del “Center for International Criminal Justice”, redatto insieme alle giovani ricercatrici Flavia Patanè ed Helena Kreiensiek. Lo studio ha mostrato le conseguenze significative che i migranti devono affrontare dopo essere stati perseguiti per traffico di esseri umani.

Sono spesso esclusi dai centri di accoglienza e hanno difficoltà ad accedere alle procedure di asilo. Quando riescono a chiedere asilo, agli scafisti gli viene puntualmente negata la protezione a causa della loro condanna. Quando non possono essere espulsi, possono finire in un limbo legale, dovendo fare affidamento su uno status umanitario temporaneo con forti limitazioni.

Nella ricerca menzionata, c’è un capitolo riguardante il diverso approccio da parte dei magistrati, che cambia a seconda della zona. In Sicilia stessa, secondo lo studio emerso da interviste fatte a campione, emerge una differenza sostanziale tra la procura di Catania e quella di Palermo. Mentre nel primo caso si è scelto di cessare l’uso della custodia cautelare nei confronti dei presunti scafisti indagati, nel caso di Palermo i magistrati userebbero un approccio durissimo.

Sempre nella ricerca pubblicata da “Center for International Criminal Justice”, si legge di un avvocato che ha assistito 20 casi di scafisti a Palermo, oltre a Catania e Siracusa. Ed ha affermato di aver vissuto un approccio giudiziario molto più duro a Palermo che in altri distretti: «Mentre a Siracusa i reati commessi da conducenti occasionali sono stati considerati reati minori e i pubblici ministeri hanno riconosciuto molti scafisti come migranti, a Palermo le accuse sono estremamente gravi e i pm agiscono in uno stato di emergenza permanente, che non consentono loro di distinguere tra i reali trafficanti e le persone vulnerabili come gli altri migranti. Questi ultimi scappano dalla guerra e dalla disperazione, vengono qui per un futuro migliore e invece inciampano nel nostro sistema, che a volte schiaccia le loro vite».

La pubblicazione italiana: garanzie processuali spesso negate

A ottobre scorso è stata pubblicata una ricerca italiana che ha per la prima volta analizzato dal punto di vista quantitativo gli arresti di migranti accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Parliamo di una analisi quantitativa di dati, raccolta da tre associazioni non governative: Arci Porco rosso, Borderline Europe e Alarmphone. La ricerca ha mostrato che in Italia, negli ultimi anni, sono stati usati i sistemi della direzione nazionale antimafia, potenti strumenti di indagine e metodi imponenti per individuare i richiedenti asilo e migranti appena arrivati nel paese che avevano condotto le imbarcazioni, accusandoli di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato che prevede pene fino a quindici anni di carcere e milioni di euro di multa.

Eppure, secondo Maria Giulia Fava, operatrice legale che ha collaborato alla stesura del report, si tratta di processi politicamente condizionati. Denuncia che nella caccia allo scafista, capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità, «le garanzie processuali vengono meno e quei princìpi su cui dovrebbe fondarsi ogni procedimento penale sono violati con leggerezza».

Molti degli scafisti sono “migranti – capitani forzati”

Ma chi sono gli scafisti? La maggior parte di loro, rientra nella categoria del “migrante – capitano forzato”. Dal report italiano, emerge che - soprattutto nelle partenze dalla Libia dal 2014 in poi - il ruolo del capitano è stato spesso svolto da persone con pochissime, o quasi inesistenti, conoscenze del mare, costrette poco dopo la partenza a guidare l’imbarcazione. Nell’organizzazione del “business” dell’immigrazione, si tratta di persone totalmente esterne alla rete aziendale-lavorativa, che non percepiscono nessuna remunerazione per il pericoloso compito; anzi, spesso gli imputati si lamentano che hanno pagato il prezzo del viaggio come tutti gli altri passeggeri, e si sentono truffati nell’aver avuto una responsabilità così alta, con altrettanto elevate conseguenze penali che sono seguite.

Gli scafisti in carcere: i benefici penitenziari negati

È particolarmente arduo capire quanti stranieri siano detenuti per reati connessi al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il sito del ministero di Giustizia riporta che le persone detenute per reati connessi al Testo Unico sull’immigrazione sono 1.267. Questa cifra però include non solo il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ma anche tanti reati che non riguardano le persone al centro del report. Di fatto, la criticità della condizione degli scafisti non concerne soltanto il trattamento riservato loro dentro le aule di tribunale, ma anche la loro vita in prigione alla luce della discriminazione posta in essere dal sistema carcerario nei confronti dei detenuti stranieri. Ci si scontra, per esempio, con il paradosso per cui adottare una linea difensiva forte, volta a contrastare le false accuse rivolte nei confronti dei capitani spesso porta ad un prolungato periodo di detenzione cautelare in attesa di un giudizio definitivo.

Ma c’è un ulteriore aspetto della legge che contribuisce alla carcerazione degli scafisti, cioè l’ostatività delle condanne. Si sa che il 4 bis, articolo emergenziale nato durante il periodo delle stragi mafiose, è stato “normalizzato” e come una calamita attrae i reati che, a seconda i periodi storici, diventano emergenziali. Si legge nel report italiano, che nell’aprile 2015 – per contestualizzare, proprio all’inizio del periodo più intenso della criminalizzazione degli scafisti – è stata introdotta l’ostatività dell’articolo 12, comma 1 e 3.

Questo vuol dire che anche quando una persona condannata come scafista arriva a una pena definitiva e possiede anche la disponibilità di una struttura o di una casa che lo può accogliere, il giudice di sorveglianza può negare l’accesso ai domiciliari sulla base del presupposta pericolosità sociale, a meno che siano emersi degli elementi tali da escludere che il condannato sia in collegamento con la criminalità organizzata o da far ritenere non abbia collaborato con la giustizia a causa della sua limitata partecipazione alla commissione del reato. Dai risultati della ricerca, emerge con tutta chiarezza come l’obiettivo politico – troppo spesso visto come imprescindibile- di scovare lo scafista, venga utilizzato per giustificare la violazione dei più basilari diritti umani. Vengono facilmente messi da parte dinnanzi alla necessità di trovare un colpevole.