La giustizia europea si manifesta attraverso l’interazione tra più organi. Spesso, ci si può fare un’idea solo considerando insieme quanto deciso sia in sede europea che in quella dello Stato membro. Questo è il caso di un tema delicato come quello della pena massima attribuita dal sistema penitenziario: l’ergastolo. Se ripercorriamo l’ultimo semestre trascorso, per quanto riguarda l’Italia nel suo rapporto con l’Europa, rinveniamo due fatti davvero molto importanti. Il 13 giugno scorso, infatti, si è avuta la sentenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo, intervenuta sul caso del detenuto Marcello Viola. Quest’ultimo è stato infatti riconosciuto responsabile di reati che gli hanno comportato la pena dell’ergastolo ostativo, per il suo ruolo di “capo dell’organizzazione criminale e di promotore delle sue attività” nell’ambito della seconda faida di Taurianova, tra la metà degli anni 80 e l’ottobre 1996. La sentenza Cedu si è espressa sul ricorso presentato dagli avvocati di Viola, secondo cui un tale trattamento sarebbe disumano e degradante, in quanto non ammetterebbe in alcun modo la possibilità di recupero, uscendo dal carcere. In particolare, il ricorrente ha contestato l’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario italiano ( la 354 del 1975), che prevede tale regime detentivo.

Con sei voti a favore e uno contrario, la Cedu ha affermato, nella suddetta sentenza, alcuni principi che riconoscono le ragioni del detenuto. Uno su tutti, quello secondo cui «l’ergastolo ostativo impedisce ogni progresso del detenuto “non collaborante” nel percorso di reinserimento graduale nella società». Inevitabilmente, una determinazione simile ha generato un consistente dibattito nell’opinione pubblica. In sintesi, la domanda centrale che ci si pone è se sia possibile ammettere l’uscita dal carcere di un condannato “non collaborante” con la giustizia. Ebbene, su questo aspetto, è intervenuta il 23 ottobre 2019 la Corte costituzionale italiana, in Camera di Consiglio. La Suprema Corte ha affermato «l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo».

Sintonia, quindi, tra magistratura europea ed italiana: il diritto alla speranza di uscire dal carcere non può essere condizionato al pentimento e alla collaborazione con la giustizia. Che cosa succede adesso? Potrebbe, il Parlamento, intervenire su una materia così delicata? Con quali effetti? Quanto sancito a Strasburgo e poi a Roma costituirà un dato di diritto insuperabile per le Camere. Certo, quanto sancito dalla Cedu ha toccato le sensibilità di molti. Primi fra tutti, di coloro che si trovano in prima linea nel contrasto alle mafie del nostro Paese e che rischiano sulla propria pelle. Secondo il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, intervistato dal Fatto Quotidiano, «i mafiosi tireranno un bel sospiro di sollievo; è passata l’idea che puoi commettere qualunque crimine, anche il più abietto, poi alla fine esci di galera». Una lettura così severa di una pronuncia sancita innanzitutto da quella che, a livello europeo, è la massima giurisdizione in tema di diritti umani, riflette la diversità di contesti in cui operano gli apparati di sicurezza dei vari Stati. Diversa, quindi, è la modalità operativa delle organizzazioni criminali. Per esempio, è noto che le cosche di ‘ ndrangheta, originariamente calabresi, si sono trasferite anche in altre regioni d’Italia e all’estero: nelle aree di insediamento, si è constatata la tendenza a nascondersi attraverso strumenti silenti quali il riciclaggio, piuttosto che ad affermare la supremazia sul territorio, con delitti efferati, come spesso è successo nelle regioni di provenienza.

Comprendere i diversi contesti è quindi fondamentale e una legislazione efficace – quale quella che potrebbe derivarne nell’anno che verrà e anche dopo – deve poter tener conto delle varie specificità ambientali; questo perché nella figura del mafioso non c’è solo l’elemento dell’intimidazione e della violenza, ma anche il suo agire camaleontico, il mimetizzarsi. Con tutto ciò il mondo politico e quello giuridico dovranno confrontarsi a lungo, perché il giorno in cui le mafie non esisteranno più, spazzate via dal diritto, dall’educazione e dalla cultura, appare ancora lontano.