Il fatto che l’indagine a carico di Beppe Grillo per traffico di influenze sia figlia dell’inchiesta Open è solo una delle beffe di questa vicenda giudiziaria. Perché per una sorta di legge del contrappasso i presunti “guai” del comico genovese sono anche il frutto di scelte politiche divenute il marchio di fabbrica del Movimento 5 Stelle. E peseranno sul ruolo dei 5S nella partita per il Quirinale. Ma andiamo con ordine. Ieri la procura di Milano ha notificato un avviso di garanzia al “garante” pentastellato ipotizzando il reato di traffico illecito di influenze. Una fattispecie scivolosa, onnicomprensiva e spesso indimostrabile riformata dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che volle rendere la “Spazzacorrotti” il fiore all’occhiello del suo mandato. Un fiore da trasformare in clava all’occorrenza, quando a finire nel tritacarne sono gli avversari politici. E adesso per gli inquirenti milanesi - informati a loro volta dai colleghi fiorentini che indagavano su Renzi - è il turno di Grillo. Per i pm potrebbero non essere regolarissimi i contratti pubblicitari sottoscritti, tra il 2018 e il 2019, dal Blog dell’elevato con Vincenzo Onorato, armatore della compagnia marittima Moby. Centoventimila euro l’anno, per due anni, in cambio di uno spot al mese da ospitare su beppegrillo.it più banner pubblicitari, redazionali e interviste a favore della società di navigazione attualmente in concordato preventivo. Per gli inquirenti il rapporto tra Onorato e il leader 5S non sarebbe stato di natura esclusivamente commerciale. Grillo, in altre parole, avrebbe provato a favorire l’armatore nella gestione della crisi aziendale della Moby, sfruttando il suo ruolo politico. Come? Veicolando «a parlamentari in carica appartenenti» al suo partito «le richieste di interventi a favore di Moby» avanzate da Vincenzo Onorato, si legge sul decreto di perquisizione che ha riguardato anche i locali societari dell’ex comico. Il fondatore del M5S avrebbe dunque trasferito «al privato le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest’ultima». Per gli inquirenti sarebbe «mediazione illecita» in quanto «finalizzata a orientare l’azione pubblica dei pubblici ufficiali». E non è neanche tutto, perché tra le società finanziate dall’armatore spunta anche la Casaleggio Associati, con cui Onorato nel stipula un contratto da 600 mila euro per «la stesura di un piano strategico e per l’attuazione di strategie per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana e gli stakeholder alla tematica delle limitazioni dei benefici fiscali alle sole naviga imbarcano personale italiano e comunitario (Campagna pubblicitaria denominata io navigo italiano)». In quel settore la Casaleggio associati è tra i leader in Italia, si difende l’imprenditore, normale rivolgersi a loro ricorrendo a prezzi di mercato. Del resto agli atti sulla Moby risulterebbero anche 200 mila euro di finanziamento alla fondazione Open, 100 mila a Change del governatore ligure Toti , 80 mila al Pd, 10 mila a Fratelli d'Italia. Ed è questo il nodo squisitamente politico della vicenda. Convinti infatti che Grillo riuscirà a dimostrare in Tribunale la sua estraneità ai fatti contestati, resta intatto il problema di fondo: la necessità dei partiti e delle fondazioni politiche di ricorrere alle donazioni private per sopravvivere. È il frutto avvelenato della cancellazione del finanziamento pubblico, portata a casa dal governo Letta su pressione di Matteo Renzi, a sua volta terrorizzato di finire schiacciato dalla martellante campagna anticasta che aveva portato i grillini al trionfo elettorale nel 2013. Così, in cambio di una manciata di voti e pochi spiccioli di risparmio per le casse pubbliche il sistema di finanziamento è diventato opaco e i partiti suscettibili del condizionamento privato. Tutti, anche chi affrontava la “casta” a colpi di vaffa hanno nel frattempo capito che la politica è un mestiere, ha bisogno di risorse e nessuna macchina può funzionare gratis. Nemmeno quella “a costo zero”, immateriale, sventolata al suono di un clic dai grillini prima maniera. I tempi sono cambiati per tutti. Anche per il M5S. Tanto che lo “sputtanamento” del fondatore segna la fine definitiva di un idillio, di un’intesa complice, tra pentastellati e procure. Lo “Tsunami”, tanto caro a Grillo, ha travolto anche lui. E ora persino la tempistica dell’avviso di garanzia desta sospetto in casa cinque stelle, a meno di una settimana del voto per il Quirinale. Sì, perché con i gruppi parlamentari sempre più sfaldati e con Giuseppe Conte incapace di controllare le truppe, in molti, negli scorsi giorni, si aspettavano un intervento imminente del padre fondatore per placare gli animi e serrare le file. Perché nei momenti di maggiore smarrimento Beppe Grillo resta ancora l’unico leader realmente riconosciuto dell’intero Movimento. L’indagine di Milano mette fuori gioco un protagonista della partita per il Colle. E mette in subbuglio non solo un partito, ma un intero schieramento, il centrosinistra allargato ai grillini, che da settimane fatica a trovare una strategia comune da contrapporre alle manovre del centrodestra. È solo l’ennesima beffa per il partito dell’onestà scandita al ritmo delle manette tintinnanti. Perché quel partito forcaiolo non ci sarà più, ma un certo modo di operare delle procure è rimasto invariato.