«Il reato di traffico di influenze illecite è come la corazzata Potemkin del film di Fantozzi, una boiata pazzesca: la si può girare come si vuole, ma alla fine i conti non tornano, perché è costruito sul nulla». A dirlo, cinque anni fa, era Tullio Padovani, professore di Diritto penale all’Università Sant’Anna di Pisa, intervistato dal Foglio sul caso giudiziario che portò alle dimissioni dell’allora ministra dello Sviluppo, Federica Guidi. Era marzo del 2016 e i grillini non persero tempo ad emettere la loro sentenza: «Quanto scoperto in queste ore sul ministro Guidi è vergognoso! Deve andare a casa subito!», recitava la pagina ufficiale del Movimento 5 Stelle, accontentato poco dopo dalla ministra, che decise di mollare. Un anno dopo il M5S ribadiva il concetto, punzecchiando l’allora premier Matteo Renzi per le indagini riguardanti il padre: «Ricordiamo a tutto il Pd ed in particolare a Matteo Renzi, che babbo Tiziano, resta saldamente indagato nell'inchiesta per corruzione negli appalti miliardari in Consip per il grave reato di traffico di influenze», si legge in un post del 13 aprile 2017. Su quella stessa pagina, oggi che ad essere indagato è Beppe Grillo, il padre del Movimento, tutto tace. Quello contestato all’ex comico è un reato dai contorni vaghi, connotato da un forte intento repressivo, che punisce, in via preventiva e anticipata, il fenomeno della corruzione, sanzionando tutti quei comportamenti, in precedenza ritenuti irrilevanti, che la “preannunciano”. Il reato è stato introdotto nell’ordinamento con l’articolo 1, comma 75, della legge 6 novembre 2012, n. 190 - la cosiddetta “Severino” -, previsto nel codice penale con l'articolo 346-bis. La norma è poi transitata nel 2019 nella cosiddetta “Spazzacorrotti”, la legge bandiera dei grillini, che adeguando il diritto penale interno a quanto previsto dalle norme sovranazionali ha esteso la portata applicativa della legge anche alle condotte che prima era riconducibili al millantato credito, contestualmente cancellato dal codice penale. La legge punisce con una pena che va da un anno a quattro anni e mezzo chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di corruzione, «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio». Insomma, vengono puniti i cosiddetti “faccendieri”, sia nell’ipotesi in cui si facciano pagare per l’opera di mediazione - e il denaro deve essere necessariamente indirizzato “a retribuire” quella stessa opera -, sia in quella per cui chiedono il denaro non per sé, ma per pagare il pubblico ufficiale, attività preparatoria del reato corruttivo. Attività considerate una patologia del lobbismo, tema per il quale solo una settimana fa la Camera ha approvato un testo di legge che disciplina l'attività di relazioni istituzionali per la rappresentanza di interessi. I casi di cronaca sono diversi e anche particolarmente pesanti: il più eclatante è forse quello, già evocato, della ministra Guidi, mai indagata, ma messa alla gogna per l’ipotesi di aver inserito nella legge di Stabilità del 2015, su pressione dell’allora compagno e imprenditore Gianluca Gemelli -, ex commissario di Confindustria Siracusa - un emendamento che sbloccava il progetto di estrazione petrolifera “Tempa Rossa”, favorevole alla Total, che avrebbe poi “ripagato” l’intermediazione di Gemelli affidando un subappalto a una delle sue aziende. Quell’inchiesta provocò un vero e proprio terremoto politico, tant’è che fu proprio il pressing dell’allora premier Matteo Renzi a provocare le dimissioni di Guidi. Mesi dopo, però, tutto si dissolse in una bolla di sapone e la posizione di Gemelli fu archiviata: per gli inquirenti, infatti, sebbene la sua autorevolezza derivasse «dal fatto di essere notoriamente il compagno del ministro Guidi», condizione che spendeva «anche millantando, in modo più o meno esplicito, la possibilità di trarre vantaggio da tale sua condizione», non è emerso «che egli abbia mai richiesto compensi per interagire con esponenti dell’allora compagine governativa». L’inghippo, spiegava all’epoca Padovani, sta nel fatto «che l’incriminazione poggia tutta sulla finalità, ma la finalità sta nella testa della gente, e come fai a stabilirla?». Insomma, gli inquirenti godono in questo senso di ampia discrezionalità per indagare - con tutte le conseguenze politiche del caso -, ma al tempo stesso scontano la difficoltà di dimostrare che il loro teorema sia corretto. Il caso Guidi non è, però, l’unico. Tra i più golosi per le cronache giornalistiche c’è quello di Tiziano Renzi, padre dell’ex segretario del Pd, rinviato a giudizio a settembre scorso nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta Consip, ma anche il caso Open, che vede coinvolto proprio l’ex presidente del Consiglio, che conta tra i reati contestati anche quello previsto dall’articolo 346-bis. Ma c’è anche la vicenda di Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, assolto pochi mesi fa in uno stralcio del processo “Mafia Capitale”, sentenza nella quale sono stati i giudici a evidenziare la fumosità di tale reato e la difficoltà, per le procure, di portare a casa il risultato. Secondo la Cassazione, infatti, la norma «non chiarisce quale sia la influenza illecita che deve tipizzare la mediazione e non è possibile, allo stato della normativa vigente, far riferimento ai presupposti e alle procedure di una mediazione legittima con la pubblica amministrazione (c.d. lobbying), attualmente non ancora regolamentata». Insomma, data la vaghezza della norma, il rischio è quello di «attrarre nella sfera penale – a discapito del principio di legalità – le più svariate forme di relazioni con la pubblica amministrazione, connotate anche solo da opacità o scarsa trasparenza, ovvero quel “sottobosco” di contatti informali o di aderenze difficilmente catalogabili in termini oggettivi e spesso neppure patologici, quanto all’interesse perseguito».