La posta in gioco non è solo il Colle. Tutti i leader, chi più chi meno, nella partita del Quirinale si giocano molto. Qualcuno, forse, tutto. Rischiano grosso Salvini, Letta e Conte, per motivi diversi. Il leader della Lega è anche il capo della coalizione di centrodestra, sia pur più sulla carta che nei fatti. L'occasione è grossa: un capo dello Stato proveniente dal centrodestra, inedito assoluto, potrebbe svolgere nella prossima fase un ruolo determinante, alla faccia dei troppi che ancora ripetono che in Italia il presidente conta poco. Gli estremi per raggiungere l'obiettivo in partenza c'erano. Mancarlo significherebbe per Salvini ricevere il colpo finale alla sua traballante leadership. Raggiungendolo, in compenso, conquisterebbe quella vittoria che dal Papeete in poi li è sempre sfuggita. Letta ha un vantaggio: non deve vincere ma solo non perdere. Un pareggio gli andrebbe bene e consoliderebbe la sua leadership. La sconfitta, cioè l'elezione di un presidente della destra, in compenso lo travolgerebbe: la sua segreteria avrebbe i giorni contati. Gli resterebbe una mossa tanto obbligata quanto azzardata: far saltare il banco e tentare il tutto per tutto alle elezioni politiche, con ben poche chances di uscirne in piedi. Conte arriva alla prova in condizioni già disperate. La sua leadership è inesistente. La capacità, e forse anche la mera possibilità, di gestire una truppa allo sbando come quella pentastellata si sono rivelate inesistenti. Ma sin qui l'assoluta non esistenza e la completa mancanza di influenza di quello che è comunque il gruppo parlamentare più forte rimangono poco giustificabili. L'ex premier ha un compito minimo: far sì che il gruppo più forte abbia una qualche voce in capitolo. Ma proprio perché la missione non sarebbe affatto impossibile nonostante i limiti immensi dei 5S non riuscirci sarebbe esiziale e definitivo. Ci sono poi i leader che non si giocano tutto e possono quindi misurarsi con la sfida con un po' di tranquillità in più. Ma anche per loro la posta è comunque alta. Giorgia Meloni sembra avere il gioco facile: se la destra conquista il Colle incassa comunque, se non ce la fa è quella che ha minori responsabilità e dunque destinata in apparenza a non pagare comunque pegno. È vero solo in superficie. La corsa alla presidenza non riguarda mai solo la presidenza della Repubblica: ha o almeno rischia di avere sempre ricadute più o meno pesanti sugli equilibri politici complessivi. In questo caso l'impatto potrebbe essere da tsunami. Nessuno può oggi scommettere a colpo sicuro che un'elezione così tanto al buio, molto vicina a un tiro di dadi, lasci poi intatte le coalizioni e gli equilibri interni alle stesse. La preoccupazione altissima della leader di FdI per le tentazioni proporzionaliste delle forze politiche è eloquente e fondata. Giorgia Meloni rischia di uscire dal tritacarne a testa alta ma con di fronte un panorama politico che penalizzerebbe proprio lei più di chiunque altro. Renzi è in una posizione simile. In questa legislatura si è confermato abilissimo nel gioco politico senza tuttavia incassare nulla di concreto per se stesso, per la sua Iv che resta al palo, per una eventuale coalizione centrista che è ancora un miraggio. Le manovre sul Quirinale sono probabilmente la sua ultima occasione. Al ragazzo di Rignano non basta contribuire a risolvere il rebus, neppure in ruolo centrale. Deve fare in modo che dal giro vorticoso di giostra si profili un diverso equilibrio politico complessivo. Il suo interesse è opposto a quello di Meloni, al punto che è difficile immaginare che uno dei due possa uscirne bene senza che per l'altro il medesimo esito si configuri come disastroso. Infine i candidatissimi mai candidatisi, Berlusconi e Draghi. Sulla carta il Cavaliere ha tutto da guadagnare e nulla da perdere. Al contrario, sembra quasi che avendo riconquistato un centro della scena dal quale sembrava fosse ormai escluso per sempre il leader di Fi abbia già vinto. Non è così. Berlusconi, al contrario, ha messo sul tavolo quasi l'intera posta. Se dovesse perdere in campo aperto, ufficializzando la candidatura, andando alla conta e poi perdendo sarebbe politicamente finito. Si potrebbe pensare che alla sua età non sarebbe poi una gran tragedia, ma per pensare una cosa simile bisogna non aver capito niente di Belusconi. Draghi, al contrario, resterà in partita. Un presidente avanti con gli anni, come lo stesso Berlusconi, Amato, Mattarella in un improbabilissimo bis o Gianni Letta autorizzerebbero la speranza di non dover aspettare 7 anni per ritrovarsi in pista: senza scomodare ipotesi funeste, ciascuno di quei papabili potrebbe infatti rinunciare al mandato in anticipo. Ma soprattutto resterebbe del tutto aperta l'eventualità di restare a palazzo Chigi per ben più di un altro anno.