Il già procuratore della Repubblica di Roma, e attuale presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, Giuseppe Pignatone, dalle pagine de La Stampa esprime sostanzialmente quattro concetti che vanno nella direzione di voler limitare i principi cardine del giusto processo. Vediamoli: «1. Sui tempi lunghi della giustizia incide in modo altrettanto significativo la scelta (del tutto politica) di mantenere nel nostro ordinamento, nonostante l'adozione del rito accusatorio, tre gradi di giudizio; 2. In Francia e in Germania, solo per fare un esempio, gli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione sono rispettivamente 50 e 100 a fronte dei 55mila italiani. Ciò significa che all'estero sono gli stessi avvocati abilitati a fare da filtro e a limitare i ricorsi alle questioni più importanti o sulle quali non esista una giurisprudenza consolidata; 3. Conviene fare ricorso sperando nella prescrizione (e, in futuro, nella improcedibilità); 4. Quanto all'appello, ci sono Paesi come la Francia che prevedono la reformatio in peius cioè la possibilità che il giudice, se rigetta l'appello, possa aumentare la pena inflitta in primo grado: il che impone una certa prudenza nell'impugnazione. Quando si è proposto questo correttivo in Italia si è gridato allo scandalo». A replicare a Pignatone ci pensa il professor Paolo Ferrua, emerito di diritto processuale penale presso l'Università di Torino: «Il ricorso in Cassazione contro ogni sentenza è garantito dall’art. 111 ultimo comma della Costituzione. Quanto all’appello, quello del pubblico ministero può essere tranquillamente abolito, non essendo tutelato né dalla Costituzione né dalle fonti sovranazionali. Si risolverebbe così l’anomalia della condanna pronunciata per la prima volta in appello, mentre il ricorso in Cassazione sarebbe sufficiente a rimediare ad ogni grave ingiustizia nell’assoluzione. L’appello dell’imputato non può, invece, essere soppresso, perché l’art. 14 comma 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici garantisce ad ogni condannato il diritto al “riesame” della colpevolezza e il ricorso in Cassazione è strutturalmente inidoneo ad assicurare un riesame della colpevolezza». Quanto al divieto della riforma in peggio, «è vero - conclude Ferrua - che la Costituzione non impedirebbe formalmente la sua eliminazione. Tuttavia, la ritengo del tutto inopportuna perché si risolverebbe in un effetto gravemente intimidatorio per il condannato; tale da indurlo a rinunciare ad esercitare il suo diritto, soprattutto nei frequenti casi complessi o “difficili”, nei quali sono ipotizzabili diverse soluzioni in fatto o in diritto. Equità vuole che proprio in tali casi prevalga, nel dubbio, la soluzione più favorevole all’imputato; il divieto della riforma in peggio corrisponde puntualmente a questa esigenza». Contraria alle affermazioni del magistrato anche la vice presidente dell'Unione Camere Penali Italiane, l'avvocato Paola Rubini: «Un processo senza garanzie, quale quello senza più appello e Cassazione, per definizione non sarebbe un giusto processo. Pensiamo, ad esempio, agli errori giudiziari: le statistiche sono drammatiche. Se non avessimo avuto il secondo grado di giudizio, Enzo Tortora sarebbe un condannato definitivo, seppur innocente. In più, se non ci fosse la possibilità del ricorso per Cassazione, anche con due precedenti sentenze conformi di condanna, non avremmo gli annullamenti con rinvio, con successive assoluzioni. Più gradi di giudizio servono a garantire una maggiore ponderazione delle sentenze, che equivale ad avvicinarsi il più possibile alla decisione più corretta, a quella che si chiama giustizia più giusta. Avere la possibilità di più gradi di giudizio significa ridurre il rischio di errore giudiziario. Sono quindi delle garanzie di giustizia irrinunciabili non per i singoli difensori ma per l'intera collettività. In definitiva quella di Pignatone a me pare una prospettiva distorta, una rinuncia alla giustizia con la “g” maiuscola. Le garanzie dei cittadini non possono soccombere all'efficientismo». Per quanto riguarda il divieto di reformatio in peius, «è un falso problema che è stato superato dal nostro legislatore. Fino al 2018 il pubblico ministero poteva proporre appello incidentale per superare il divieto; con la riforma Orlando questa possibilità è venuta meno ma è rimasta comunque quella di impugnare la sentenza di primo grado, con la medesima conseguenza ossia di fare cadere il divieto. In questa cornice, se l'imputato fa appello la domanda può essere accolta o respinta. Tuttavia faccio notare che se c'è un'alta percentuale di sentenze di primo grado che vengono riformate significa che i motivi di appello sono fondati». Per tutto il resto, «ritengo che non sia una obiezione costruttiva quella di dire che ci sono troppi avvocati che, in più, puntano alla prescrizione: sappiamo tutti che la prescrizione è stata oggetto di riforma e sappiamo anche che in Cassazione il paracadute utilizzato è quello della manifesta infondatezza dei motivi che rende inoperante la prescrizione». Anche per l'avvocato Giovanna Ollà, coordinatrice della Commissione diritto penale e procedura penale del Cnf, «quelle sollevate da Pignatone sono critiche già smentite nei fatti e nelle statistiche da diverso tempo. È una favola quella per cui sono gli avvocati a portare a prescrizione i processi: l'impedimento del legale e dell'imputato sono sospensivi del corso della prescrizione. Inoltre, secondo gli ultimi rapporti Eurispes, i rinvii delle udienze non sono imputabili a noi, ma a gravissime carenze strutturali della macchina giudiziaria, quali i difetti di notifica». In aggiunta, «non capisco - prosegue Ollà - perché il fatto che ci sia un numero ristretto di abilitati in Cassazione dovrebbe portare ad una riduzione dei ricorsi. Comunque da un po' è stata introdotta la riforma per cui per essere abilitati in Cassazione occorre superare un esame piuttosto significativo». Infine, «il criterio di prudenza invocato da Pignatone in tema di reformatio in peius rischia di diventare il criterio della paura. Ciò altera anche il principio di accertamento della verità: o ci crediamo nel giudizio di appello o non ci crediamo».