L’emergenza Covid 19 viene letta quasi esclusivamente da punto di vista della salute fisica. Ma come ha recentemente affermato David Lazzari, presidente nazionale dell’ordine degli psicologi, tra i reduci del Covid e una popolazione smarrita e stanca, spesso impaurita da questa emergenza che non sembra finire. è da tempo in atto un’altra emergenza: ed è quella psicologica che solo la politica pare non vuol vedere. Lo si evince dal fatto che a fronte dei miliardi investiti per fronteggiare la salute fisica nella pandemia, la salute psicologica è stata oggetto di attenzione ed investimenti quasi inesistenti. L’ultimo atto è stata la bocciatura da parte del governo al "bonus psicologo". Questo nel mondo libero. Se pensiamo però per quanto riguarda la popolazione detenuta, dove ogni problematica dietro le sbarre è amplificato, l’investimento nella salute psichica è prossima allo zero.

Diversi studi hanno considerato gli effetti della pandemia sulla sfera psichica. Il Covid 19 non è solo un virus che colpisce la salute fisica di chi lo contrae, ma porta con sé una serie di conseguenze psicologiche non trascurabili: la paura, il senso di solitudine e di abbandono durante il periodo di isolamento in casa o durante il ricovero in ospedale. La letteratura scientifica ci dimostra che un certo numero di persone ha sperimentato un notevole disagio psicologico durante la pandemia in termini di ansia, depressione e sintomi da stress post- traumatico. A livello della popolazione generale, i risultati sono relativamente coerenti in termini di gravità: la maggior parte degli individui soffre di disturbi lievi- moderati, mentre i soggetti che riportano sintomi gravi sono una minoranza.

Alcune categorie però si sono rivelate particolarmente vulnerabili e hanno manifestato i sintomi mentali con più frequenza e gravità: gli operatori sanitari, specie quelli più a contatto con i portatori dell’infezione; i pazienti affetti da Covid-19; gli anziani, specie se affetti da patologie croniche; i bambini e gli adolescenti; il genere femminile più di quello maschile; le persone neurolabili o affette da disturbi psichiatrici preesistenti ( specie quelle borderline rispetto quelle in stato di male avanzato che possono non cogliere completamente il pericolo del momento).

Gli esperti di questo settore sottolineano la necessità di prestare un’attenzione specifica anche ad altri gruppi a rischio di disagio che potrebbero necessitare di interventi mirati come i detenuti, le donne incinte, i migranti e i giovani. Nel sito dell’ospedale Niguarda di Milano, si apprende che molte strutture ospedaliere italiane hanno assistito ad un aumento del numero di richieste di ricovero in psichiatria da parte dei più giovani. Molte di queste avvengono per atti di autolesionismo e tentati suicidi, anche se di pari passo si è potuto assistere ad un forte aumento dei ricoveri per anoressia. Questo incremento è stato confermato anche dall’Ospedale Niguarda: sono moltissimi i giovani che hanno richiesto una prima visita presso il Centro Psicosociale Giovani. Poi ci sono i risultati di un recente studio italiano effettuato dall’Università dell’Aquila e dall’Università La Sapienza di Roma che evidenziano alcuni dati importanti.

Nella popolazione generale sono state stata identificate varie risposte psicologiche negative: oltre all’ansia, alla depressione e agli alti livelli di stress sono state individuate anche insonnia, risentimento, preoccupazioni riguardo la propria salute e quella dei propri cari, sensibilità ai rischi sociali, insoddisfazione nella vita, fobie, evitamento, comportamenti compulsivi, sintomi fisici e compromissione del funzionamento sociale. I risultati hanno mostrato, ad eccezione del livello di istruzione, che i giovani adulti (di età compresa tra 18 e 40 anni) e il genere femminile hanno subito un forte impatto negativo. Non esiste invece uno studio per quanto riguarda l’impatto della pandemia, dal punto di vista psicologico, in carcere.

Come evidenza il rapporto di Antigone, l’Oms conferma il disturbo psichico come la patologia più frequente in carcere, mentre dal punto di vista strettamente nazionale troviamo più di un detenuto su 4 in terapia psichiatrica, con una media del 27,6%. In alcuni istituti addirittura quasi tutti i detenuti sono in terapia psichiatrica, secondo i dati riportati nel rapporto di Antigone del 2020. Parliamo di una fotografia delle carceri italiane prima del Covid-19 e sono elementi preoccupanti: nel carcere di Spoleto risultava in terapia il 97% dei reclusi, a Lucca il 90% mentre a Vercelli l’ 86%.

La presenza di psichiatri in questi istituti era garantita di media per 7,4 ore settimanali ogni 100 detenuti, mentre gli psicologi risultavano presenti per una media di 11,8 ore settimanali ogni 100 detenuti. In 19 degli istituti visitati da Antigone era presente un’articolazione per la salute mentale. Sempre Antigone, questa volta nel corso dell’anno 2021, ha potuto verificare che ogni 100 detenuti erano in media disponibili 8 ore di servizio psichiatrico e 17 di servizio psicologico, anche se, sempre in media, il 7% dei detenuti aveva una diagnosi psichiatrica grave e il 26% faceva uso di stabilizzanti dell'umore, antipsicotici o antidepressivi.

Quella della salute mentale sicuramente costituisce una delle questioni di maggior rilevanza, anche in termini di complessità, che interessano il mondo carcerario. Figuriamoci ai tempi della pandemia. Secondo uno studio elaborato dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, il bisogno di psicologia è cresciuto molto nel Paese: due italiani su tre lo chiedono in aiuto al medico di famiglia, negli ospedali, nei servizi sociali e, appunto, nelle carceri.