«Bisogna tenere bene a mente il fatto che riguardo ai fenomeni come l’immigrazione e l’emergenza climatica nel mondo globale i confini non esistono. O anche la politica della destra più chiusa si rende conto che bisogna mutare prospettiva o saremo condannati a non risolvere i problemi». Parole chiare, nette, quelle dell’ex Presidente della Camera – ora Presidente del Comitato permanente sui diritti umani nel mondo della Camera dei deputati – Laura Boldrini, in coerenza con quell’orizzonte valoriale di inclusione e rispetto dei diritti che da sempre ne caratterizza la vita politica ( e privata), ripercorsa, nel volume “Un storia aperta. Diritti da difendere, diritti da conquistare” (Edizioni Gruppo Abele), nella lunga e preziosa intervista a cura della giornalista Eleonora Camilli.

Presidente Boldrini, dall’affossamento del ddl Zan al diritto di cittadinanza e al suicidio assistito: l’Italia è in ritardo sui diritti?

Ci sono tanti diritti che sono in attesa di essere affermati, ed è veramente molto triste che una parte di questo Parlamento ne sia allergica. Ne abbiamo avuto conferma quando la parte destra dell’emiciclo del Senato ha inteso affossare il ddl Zan: la trovo una pessima immagine, esemplificativa di come certa politica, votando contro una legge che contrasta i crimini d’odio, non consideri alcuni diritti – come il diritto delle persone a sentirsi sicure – meritevoli di essere sostenuti. Come si fa a votare contro una legge che contrasta i crimini d’odio? È giusto quindi istigare discriminazioni e violenze contro donne, omosessuali, transessuali, persone disabili? Per la destra oscurantista non è un problema che queste persone non abbiano una protezione specifica, e ciò, a mio avviso, è molto preoccupante.

Ci sono molti diritti in attesa di essere riconosciuti: la Corte costituzionale si è pronunciata sul suicidio medicalmente assistito, così come sul cognome delle madri ai figli. Inoltre c’è anche la legge sulla cittadinanza, che risale al 1992, datata e non più corrispondente alla realtà perché nel frattempo il mondo e l’Italia sono cambiati. Tutti provvedimenti fermi perché a rischio di non trovare in aula una maggioranza e di subire le sorti del ddl Zan. Purtroppo in Italia manca una destra moderata e liberale con cui ragionare e con la quale collaborare per portare avanti il Paese su temi delicati come questi.

I diritti sociali e quelli civili sono davvero in contrasto o questa è una lettura distorsiva?

Non sono in contrasto: sono collegati. Si possono proporre alcuni provvedimenti che riguardano il lavoro e, al tempo stesso, altri a favore dei diritti civili. Non esiste una contrapposizione di tal genere, se non nella narrazione della destra, abile nell’affermare in modo manipolatorio che i veri problemi sono sempre altri: il famoso “benaltrismo”.

In Afghanistan la donna sembra relegata ad una condizione di evidente marginalità. Noi possiamo realmente permetterci di guardare la questione dall’alto in basso, con superiorità?

Come ribadisco nel libro “Una storia aperta”, un diritto non è sicuro se non è affermato e consolidato ovunque nel mondo. Se i diritti delle donne – in Afghanistan, Arabia Saudita, Yemen e altrove – sono calpestati, ciò va a incidere anche sulla solidità dell’uguaglianza di genere in altri Paesi.

Noi donne europee non possiamo sentirci davvero al sicuro con la consapevolezza che in gran parte del pianeta le donne soffrono una disparità di trattamento così grave. Per arrivare alla vera parità, dobbiamo fare in modo che ovunque nel mondo le donne riescano a ottenere gli stessi diritti e le stesse opportunità degli uomini, perché, fintanto che ci saranno luoghi dove questo non avviene, anche qui da noi quei diritti saranno precari. Insomma, i diritti delle donne devono essere considerati universali.

Lei ha istituito le due commissioni parlamentari su Internet e digitale e per il contrasto dei fenomeni di odio in rete. Bisogna fare di più per opporsi al cyberbullismo e altre forme di violenza veicolate dalla rete?

La rete è un luogo in cui la violenza sta avendo la meglio: è necessario mettere degli argini a questa deriva. Disponiamo di proposte di leggi – ce n’è una anche a mio nome – contro questi fenomeni, ma finora non sono state calendarizzate. La mia – elaborata, insieme ad esperti, professori universitari e rappresentanti delle authority, sulla falsariga di una legge tedesca – purtroppo è ferma. Nel testo, oltre a ribadire che chi veicola forme di violenza attraverso la Rete commette un reato così come chi lo commette offline, chiama in causa le piattaforme digitali, che devono rispondere del loro agire. Se non intervengono immediatamente e non presentano dei report puntuali sull’impegno profuso per bloccare la diffusione di messaggi offensivi, incorrono in multe ingenti.

È importante che il legislatore intervenga prima possibile, perché se non facciamo nulla è come se accettassimo la degenerazione quotidiana del dibattito pubblico e ci rassegnassimo al peggio. L’obiettivo di queste campagne d’odio è limitare la libertà di espressione delle persone, quelle che esprimono opinioni considerate sgradevoli ai professori dell’odio, intimidirle ed estrometterle dalla sfera pubblica e politica. E questo incide sulla qualità della democrazia: non può essere più trascurato.

Nel libro ha tracciato una distinzione fra democrazia e democratura. Alcuni Paesi che costituiscono l’Unione europea si pongono come vere e proprie democrature. Ritiene che, per quanto concerne il progetto europeo, qualcosa sia da rivedere?

L’Unione Europea, che finora è stata troppo tollerante, oggi può contare su una leva potente per ripristinare lo stato di diritto in alcuni Paesi: non concedere i fondi, inclusi quelli del Pnrr ( Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ndr). Un Paese dell’Unione europea come la Polonia non può avere zone Lgbt+ free, cioè luoghi in cui la comunità Lgbt non è gradita e in cui le discriminazioni sono di fatto legittimate: questo è contro la democrazia.

Alcuni Stati stanno strumentalizzando la gestione dei flussi migratori in maniera discutibile, come ci testimonia quanto avviene al confine tra Polonia e Bielorussia o il ricatto della Turchia all’Unione europea. Pensa che la situazione potrebbe migliorare?

La situazione potrebbe migliorare qualora l’Unione europea si dotasse di una politica comune sull’immigrazione, che al momento non ha poiché non è materia su cui le istituzioni europee hanno una delega. Quindi ogni Stato fa per sé e tenta di scaricare sugli altri il problema. Non si può essere ipocriti: impedire a tutti i migranti di entrare nel territorio dell’Unione equivale a impedire l’accesso all’asilo a chi fra loro ha realmente bisogno di protezione. Un diritto previsto dai trattati dell’Unione. Serve quindi alle frontiere un sistema efficace di identificazione delle persone, informazione sui loro diritti e anche sui loro doveri: chi ha titolo di fare domanda d’asilo deve poterla fare, mentre, in caso contrario, chi entra in violazione alle leggi sull’immigrazione verrà rimandato indietro, sempre nel rispetto dei propri diritti.

L’Unione europea non può più permettersi di rimandare i vari problemi che oggi esistono: se per cambiare i Trattati è necessaria l’unanimità, ci saranno sempre Stati che impediranno questo passaggio, quindi bisogna cambiare il meccanismo di voto. Verrà poi anche il momento di decidere cosa fare con Polonia e Ungheria, che da tempo non rispettano più i principi fondanti dell’Ue, considerandola semplicemente un bancomat e rallentando l’integrazione politica europea. Non funziona così: da condividere ci sono vantaggi ma anche responsabilità.

Nel mondo si ravvisa una certa disomogeneità per quanto riguarda le possibilità d’accesso alla vaccinazione: in Africa una percentuale esigua di popolazione ha ricevuto la prima dose – anche a nostro detrimento, come la diffusione della variante Omicron insegna. Ha fiducia che i Paesi ricchi supereranno la loro miopia?

Sono molto rattristata dalla decisione di non concedere la liberalizzazione dei brevetti, le cui conseguenze paghiamo tutti. Com’è possibile per noi europei pensare di salvarci senza interessarci della sorte di milioni di persone nel resto del mondo? Il virus si modifica, mettendoci sempre nuovamente in crisi, per cui o i brevetti di questi vaccini possono essere ceduti ad aziende che possiedono il know how per poterli riprodurre in dosi sufficienti, oppure ci condanniamo tutti a vivere in perenne stato d’emergenza.