Musica e diritto, dialogo tra Paolo Conte, avvocato e cantautore, e Giorgio Resta, Ordinario di Diritto privato comparato all'Università di Roma 3.

Maestro, lei è noto al grande pubblico come “l’Avvocato”. Forse non tutti sanno che non si tratta soltanto di un titolo acquisito in anni lontani, perché lei è rimasto sempre molto legato al mondo della professione forense, che ha continuato a praticare anche quando si è dedicato a tempo pieno alla carriera artistica di cantautore. In questa conversazione vorrei porle qualche domanda sull’intersezione tra la musica e il diritto, approfittando della sua straordinaria esperienza in ciascuno dei suddetti ambiti. Inizierei con la sua formazione. Può raccontarci perché si è laureato presso l’Università di Parma e non, come sarebbe parso più naturale visti i suoi natali, presso l’Università di Torino? Quale ricordo conserva di quel periodo e in quale materia ha discusso la tesi di laurea? Infatti ho cominciato a Torino, poi ho fatto parte di un esodo generale (molti migrarono a Pavia, altri a Genova, io a Parma) in cerca di insegnamenti del diritto più sostanziali e meno teorici e sistematici di quelli praticati a Torino. Sono stato uno studente mediocre e francamente poco impegnato (il fantasma della musica mi spiava dietro gli angoli). Per la tesi di laurea ho scelto filosofia del diritto (Léon Duguit, positivista francese dedito all’importanza dei servizi pubblici). La storia della musica colta occidentale è ricca di esempi di compositori – tra i quali C.F.E. Bach, Schumann, Stravinsky, Nono – laureati in giurisprudenza e poi votati al culto di Euterpe piuttosto che a quello di Dike. Non intendo da ciò trarre alcuna conclusione, né nel senso della contiguità, né nel senso opposto dell’incompatibilità tra la sensibilità del giurista e quella del musicista. Mi interessa invece sapere quali impressioni ha lasciato in lei un’esperienza di formazione giuridica compiuta in un sistema e in un contesto culturale che si basa sulla premessa della separazione tra il diritto e il suo “ambiente”. Dando per scontato, come diceva il grande violinista Oistrakh, che “la tecnica bisogna possederla per dimenticarla”, ci può raccontare come una persona con una spiccata passione per l’arte (la pittura e la musica nel suo caso) abbia vissuto sin da giovane matricola lo studio universitario della giurisprudenza?  Provengo da una famiglia di notai (padre, zio, nonni). Mio padre ottimo pianista, mia madre spirito vivace, amante delle arti. In barba alle proibizioni del fascismo ho avuto il privilegio di ascoltare in casa mia musica americana e francese (genitori giovani che purtroppo se ne sono andati da questa Terra ancora giovani). Per me, mio fratello e mio cugino l’assetto borghese della famiglia prevedeva una continuità della tradizione dell’ufficio. Ma la vita da notai non faceva per noi. Devo dirle che al momento di scegliere la facoltà universitaria ero attratto dallo studio della medicina. Poi, essendo il primogenito ho avuto il privilegio di pensare ad un mio futuro come avvocato (non come notaio) e così ho scelto la giurisprudenza. L’equilibrio tra tecnica e anima è sempre molto delicato, tanto nella musica quanto nel diritto. L’una non può esistere senza l’altra, ma il vero tema è come dosare il loro rilievo nel percorso di formazione dei giuristi o dei musicisti in erba. Mi ha sempre colpito, per fare un esempio, la differenza di attitudine che connota rispettivamente l’ambiente universitario nordamericano e quello europeo-continentale. Lì, sin da quando si fanno i colloqui preliminari per l’ammissione degli studenti e poi nell’intero corso di studi, il tema che emerge in maniera prepotente è relativo a quello che usiamo definire come il problema della “giustizia” (declinato poi in relazione alle varie discipline); qui si discute molto meno di cosa sia o per chi sia la “giustizia”, concentrandosi invece molto di più sulle “tecniche” per assicurare un esito conforme al quadro delle norme vigenti o dei principi che informano il sistema. Le ragioni di questo diverso atteggiamento hanno a che fare con i diversi itinerari storici di sviluppo e i differenti presupposti istituzionali (prima tra tutti la modalità di selezione del giudice) che connotano i due contesti ordinamentali. Dando tutto questo per scontato, sarebbe secondo lei possibile o auspicabile riscoprire e rafforzare quell’aspetto ‘umanistico’ della formazione del giurista derivante dal contatto con la filosofia, la letteratura, la musica e le altre arti, che un tempo era fortemente presente e che oggi sembra esser divenuto recessivo, avendo la “tecnica” in larga parte assorbito l’attenzione per l’“anima”? Sì, sì, nei “bei tempi andati” i giuristi avevano decisi interessi umanistici, se non talvolta addirittura artistici. Credo dipendesse sia dall’estrazione sociale di stampo borghese sia ancora forse più dalla frequentazione del liceo classico capace di esercitare una forte influenza umanistica e “poetica”. Adesso, pur nella consapevolezza di rispondere “fuori tema”, Le racconto un mio aneddoto della mia vita da avvocato. Dopo ben nove anni di battaglie processuali, una causa viene finalmente assegnata a sentenza. Qualche giorno prima che scadessero i termini, mi viene lo scrupolo difensivo di stendere una breve memoria di replica. Mi era venuta in mente una concisa osservazione di diritto che per tutta la durata della lite non era mai stata sollevata. Per riempire la paginetta incastono quel rilevo giuridico tra due svolazzi “poetici” del tipo “…il sole tramonta sulle terre del Sig…abusivamente occupate…” oppure “…e quella luce rossastra piove come sabbia del Sahara sulle fertili coltivazioni…” ecc. ecc. roba così. Era sera, la batto a macchina, me ne vado a dormire. La mattina dopo la deposito in cancelleria. Passato qualche giorno, mi trovo a salire le scale del palazzo del tribunale affiancato dal giudice relatore di quella causa, magistrato di grande maestria tecnica e dal temperamento signorilmente “freddo”. Il quale mi fa: “È sempre un piacere leggere le Sue comparse, avvocato”. Lo ringrazio sentitamente, ci salutiamo e ci separiamo. Comincio a pensare: mi vuole prendere in giro? Oppure vedi mai che i miei svolazzi “poetici” hanno fatto breccia? Mistero. Dopo qualche tempo avrei letto nella motivazione della sentenza “…come acutamente osserva la difesa del convenuto…”. Aveva vinto il Diritto. La Letteratura non c’entrava per niente. Il discorso scivola naturalmente verso il problema dell’estetica del diritto. Da poeta e raffinato cantautore, come giudica il linguaggio giuridico corrente? Non parlo ovviamente della qualità della legislazione, perché su quella purtroppo è meglio tacere (com’è stridente con la realtà attuale la citazione di Stendhal, che in una lettera a Balzac scriveva che durante la stesura della “Certosa di Parma” era solito leggere due o tre pagine del Code Napoléon per “prendere il tono” ed “essere sempre naturale”); mi riferisco invece al linguaggio della giurisprudenza e in genere delle professioni giuridiche. Ne ha mai tratto ispirazione per il suo lavoro?  Cerco di rispondere citando i versi di una mia canzone dal titolo “Parole d’amore scritte a macchina” dedicata ad una istanza di separazione coniugi. “Memorabili/frasi d'amore scritte a macchina/la nostra storia in quattro pagine/che raccontata ci può perdere/ah, formidabile/il tuo avvocato è proprio un asino/no, certe cose non si scrivono/che poi i giudici ne soffrono/eh eh eh/rido perché/a parte lo stile/del tuo legale/sono parole tue/d'amore scritte a macchina/baby, baby/van tanto bene per me”. Più in generale, mi sono sempre domandato se la sua cultura musicale abbia in qualche modo contribuito a definire il suo modo di essere giurista; oppure se, viceversa, la sua formazione giuridica abbia influito sul suo stile compositivo e più in generale sulla sua concezione artistica (come certamente accaduto per alcuni brillanti esempi di giuristi-letterati, a partire da Salvatore Satta). Lei ha mai riflettuto su questo interrogativo ed eventualmente quali risposte si è dato?  Le rispondo a proposito del “viceversa”. La composizione di una canzone naviga con i venti della fantasia. Molti scrivono a ruota libera, i versi sono sciolti, il linguaggio arriva sovente ad essere ermetico. Per quanto riguarda i miei metodi di lavoro le posso aggiungere che prima compongo la musica poi le parole. Credo sia sempre la musica “a fare la pagina” con le sue forme non trasgredibili e una logica interna che guida tutta le struttura. Una frequentazione del linguaggio giuridico può aiutare a mantenere sui binari più adatti anche le intemperanze della fantasia. Il significato stesso dei vocaboli (a volte duplice o triplice) necessita anche di un energico controllo logico e sintattico che può anche servire ad aggiungere astuzia quando occorre. A giudicare dai suoi testi, il diritto non è molto presente, se non nella celebre saga del Mocambo, dove sin dal primo episodio (“Sono qui con te sempre più solo”) compare la figura un po’ grigia, eppure bonaria e tutt’altro che antipatica, del curatore fallimentare, il quale dopo un caffè e un sorriso compiacente finisce per chiudersi in sé, “sempre di più”. Per contro, in altri cantautori privi di formazione giuridica, come Bob Dylan, il diritto e la giustizia sono temi spesso centrali. Si tratta di questioni che non la interessano sul piano poetico, magari perché presenti in maniera non occasionale in altre parti della sua esperienza di vita, o si tratta di una pura casualità?  Sono stato curatore di fallimenti anche piccoli in cui il protagonista, per il solo fatto di essere schedato come imprenditore, veniva in caso di insolvenza sottoposto alla procedura concorsuale. Per la verità sovente si trattava di personaggi (risalenti agli entusiasmi del dopoguerra) che avevano sognato più in grande delle loro fortune economiche. Per quanto riguarda il problema della giustizia come argomento di canzoni, Le dico che mi sono sempre mantenuto fuori da istanze sociali e tantomeno politiche. Ho solo scritto favole con personaggi quasi sempre inventati. Se poi, sotto sotto, si può intravedere qualche pensiero magari impegnato, è tuttavia possibile farlo. Veniamo alla sua esperienza professionale, di cui sappiamo certamente meno rispetto al suo percorso artistico. Mi ha colpito, vedendo il bel film-documentario di Giorgio Verdelli “Paolo Conte. Via con me”, un passaggio nel quale lei sottolineava la sua profonda affezione nei confronti della professione forense. Ci vorrebbe raccontare qualcosa delle materie che ha più assiduamente praticato, del tipo di attività che l’ha più interessata (quella giudiziale o quella stragiudiziale), dei rapporti con i giudici? Nutre ancora un qualche interesse per il mestiere di avvocato?  Essendo di estrazione civilistica, non ho mai praticato il diritto penale, quasi mai. Oggi, comunque, complici la mia carriera artistica e il passare degli anni, confesso di aver dimenticato tutto quel poco che sapevo. Mi capita, in certe notti di insonnia, di provare ad inventarmi un caso processuale e pensarci su. Per esempio, cercare, da difensore penalista, di derubricare un reato di truffa ad illecito civile (arricchimento indebito) …ma poi, per fortuna, mi riaddormento. Alcuni tra i massimi giuristi italiani, primo tra tutti il civilista Salvatore Pugliatti (che insegnò anche musicologia), hanno riflettuto a lungo sulle affinità tra il diritto e la musica. Più in particolare, il fenomeno dell’interpretazione è stato inteso – e qui il pensiero corre naturalmente alla figura di Emilio Betti – come naturale terreno di confronto tra le due discipline: come la partitura musicale non “vive” sino a quando non sia trasformata in materiale sonoro da un interprete-esecutore, così la norma giuridica acquista concreta consistenza soltanto negli atti dei suoi destinatari, che a loro volta presuppongono un’interpretazione del testo. Da questo assunto discendono naturalmente una serie di interrogativi, relativi al dovere di fedeltà al testo (ma: alla lettera di esso? Alle intenzioni autoriali?), a come riempire gli spazi di indeterminatezza di senso che connotano tanto il linguaggio legislativo quanto la notazione musicale, al problema dell’adattamento di testi antichi alle nuove condizioni di contesto, al rilievo della “tradizione interpretativa”. A proposito di tali questioni vorrei chiederle alcune cose. Lei che è un compositore avverte l’esigenza di preservare un rigoroso rispetto dell’integrità della sua opera? E il suo ‘io’ di avvocato, allenato da esperienze di vita a confrontarsi con più letture astrattamente legittime del medesimo testo normativo, come risponde? In quanto compositore sì, avverto l’esigenza di preservare un rigoroso rispetto dell’integrità delle mie opere. Diversi anni fa in casa mia c’erano gli imbianchini, i quali avevano steso a terra dei giornali, per non sporcare. Per puro caso vedo una pagina in cui si annunciava l’uscita di un volume di un filosofo americano (non ne ricordo il nome) reparto estetica, che propugnava l’importanza di una visione delle arti in senso antistoricistico. Da quel poco che ho letto, ginocchioni a terra, mi pare di aver capito che per storicismo si intenda la tendenza a considerare che, procedendo nel tempo, le arti migliorino. Al contrario la visione antistoricistica preferisce situare in perpetuo le opere (o i risultati stilistici) là dove si sono compiute, originali e perfette nelle loro stesse imperfezioni che il “progresso” vorrebbe cancellare. Così la penso, e non per fissazioni filologiche, ma perché così è stato. La classicità. Passando poi, come saltando di palo in frasca, all’ambito del Diritto, mi viene da ricordare, come sull’onda di una nostalgia, un capitolo del testo universitario di storia del diritto romano intitolato “Utraque Lex” dedicato al fenomeno, nei tempi barbarici, di riemersione del Corpus del diritto romano al di sotto della stratificazione di più elementari e primitive leggi dei barbari. Il ritorno, anche qui, di una classicità perduta. Come vede il problema dei limiti alla discrezionalità dell’interprete? E volendo riprendere un parallelo varie volte avanzato nella letteratura scientifica, ritiene che sia legittimo e/o proficuo accostare il ruolo dell’interprete-esecutore a quello di un giudice? Ho avuto qualche volta la tentazione di fare un po’ di domande ai direttori d’orchestra (in camera caritatis). Per esempio: 1) caro Maestro, voi direttori siete le vestali che custodiscono la scrittura dei compositori senza discostarvene – ok; 2) caro Maestro, ognuno ha la propria personalità, sensibilità e cultura – quindi lei, come altri direttori, ‘interpreta’ la sacra composizione, concedendosi magari piccole varianti che, pur mai alterando le note scritte dall’autore, intervengono sulla velocità dello stacco, sulle dinamiche, sulla pronuncia degli strumenti, sulla prevalenza di una sezione, ecc. Questo solo perché: a) così vi piace di più…; b) così vi fa fare la vostra cultura, se magari vi volete riallacciare con più evidenza allo spirito dell’epoca in cui la composizione è stata concepita…; c) oppure l’opposto, spogliare l’esecuzione da troppi retaggi del passato, che non ritenete più attuali…; 3) caro Maestro, le capita di pensare in modo critico alla partitura che deve dirigere? Per esempio: qui Beethoven poteva risparmiarci queste 64 battute ripetitive che appesantiscono il fluire del discorso. Oppure: guarda un po’ qui, Beethoven si addentra in un meraviglioso snodo armonico, ma poi si ritira e non prosegue per la strada che quella fantastica modulazione gli indica… Quanto al parallelo tra interpretazione giuridica e interpretazione musicale, ho provato per diletto a rappresentare graficamente i rapporti tra il giudice e il direttore d’orchestra nel seguente prospetto:

Composizione (partitura) - Fattispecie legale/Fattispecie reale

Direzione (Interpretazione) - Giudizio

Fruizione del pubblico - Soddisfazione della necessità del giudizio

Rispetto della scrittura originale del compositore - Rispetto della norma vigente/ Esame della fattispecie reale

Piccole varianti di espressività - Aggancio alla giurisprudenza (più o meno consolidata) 

Critica alla partitura - Sentimento critico: Inadeguatezza della fattispecie legale; Particolarità della fattispecie reale; Tentazione di agire come il pretore (jus novarum)

Si può notare in questi prospetti comparativi un elemento di attenzione spettante al giudice che non trova riscontro nel lavoro del direttore d’orchestra: cioè l’esame della fattispecie reale portata in giudizio.

Queste sue considerazioni mi portano a enfatizzare, più che i pregi, gli oggettivi limiti del parallelo tra giudice e direttore d’orchestra. Tra questi metterei al primo posto la differente finalizzazione dei due atti linguistici, quello musicale e quello normativo: il primo è essenzialmente orientato alla sfera emozionale (suscitare emozioni per l’ascoltatore), mentre il secondo alla dimensione comportamentale (orientare le azioni dei destinatari della norma). In secondo luogo, come lei ha opportunamente rimarcato, l’interpretazione del diritto demandata a un giudice presuppone sempre un confronto con il “fatto”, il “caso” (o la “fattispecie reale” nella sua precisa terminologia), che invece manca di regola nell’ambito musicale. In terzo luogo, è bene ricordare che non tutto il diritto funziona secondo lo schema previsione normativa/interpretazione/applicazione  (basti richiamare il fenomeno, caro a Rodolfo Sacco, del “diritto muto”), e che non tutti i generi musicali – e soprattutto non tutta la storia della musica – muovono dall’idea di una partitura rigidamente definita destinata a essere fedelmente riprodotta da un interprete. Così non era prima del perfezionamento della notazione musicale, o sino a quando gli autori erano di regola (come J.S. Bach) i principali esecutori della propria opera. Così non è in molti generi musicali diversi dalla musica ‘alta’ par excellence, come il jazz, dove il vero fulcro dell’attività esecutiva è costituito, come lei ci insegna, dall’improvvisazione. Cosa pensa del valore dell’improvvisazione? Poiché anche l’improvvisazione non è mai arbitrio, ma segue canoni e patterns più o meno definiti, può essa rappresentare un paradigma alternativo all’ideologia della “fedeltà al testo” (Werktreue), che così spesso si riaffaccia non solo nel mondo musicale (penso alle varie correnti di stampo filologico che hanno dato vita a un vero e proprio segmento dell’industria culturale) ma anche in quello giuridico?

Possiamo intitolare questo paragrafo “L’illecito dell’interprete” oppure “La fedeltà al testo”. Rimango nel campo artistico: è notorio che molte “invenzioni” compositive discendono da una fonte più antica. Per quanto riguarda una semplice canzone, direi che per la sua brevità (da 2 a 4 minuti) è più facile subodorare il c.d. “plagio”. Per le composizioni di musica classica, specialmente per le sinfonie e i concerti, il compositore può aver elaborato un’idea non sua in uno spazio temporale e architettonico molto più vasto ma è risaputo, e talvolta evidente, che tanti autori “colti” abbiano attinto al folklore autoctono e a quello nomade (pensiamo alla migrazione da Est a Ovest del patrimonio gitano che tanto influenza la musica latina (Spagna, Portogallo, Sudamerica). Rientrando nella sfera del Diritto, non Le nascondo di aver qualche volta vagheggiato l’idea che qualche giudice di merito (pur appoggiandosi al giudizio della Suprema Corte di legittimità) abbia la possibilità (e la voglia) di innovare il Diritto. Sull’improvvisazione nel Jazz: amo, criticamente, il Jazz primitivo anche se ho seguito tutta la storia di questa grande musica. L’improvvisazione, su temi scritti dagli stessi improvvisatori oppure dai c.d. standards: questa pratica nasce probabilmente da una ragione semplice: riempire lo spazio (2 - 3 minuti) assegnato dal disco (78 giri). Nel Jazz “classico” questo spazio esigeva performances molto sintetiche e questa necessità di sintesi ha ottenuto un linguaggio espressivo dove perfetta sintassi e capacità emozionale erano dominanti. Dopo l’invenzione del disco LP (lunga durata) il maggiore spazio ha tentato i solisti che hanno preso a destreggiarsi con improvvisazioni spesso ripetitive e cariche di patterns strumentistici.

Negli ultimi anni si discute molto delle possibilità di una ‘giustizia digitale’. Del pari, leggiamo – taluno con preoccupazione, talaltro con entusiasmo – dei risultati raggiunti dalle tecniche dell’intelligenza artificiale in ambito artistico: Huawei ha annunciato che tramite un software di intelligenza artificiale è stato possibile completare l’“Incompiuta” di Schubert (che si può ora ascoltare su YouTube); ancor più di recente è stata pubblicata la notizia che la Beethoven Orchestra di Bonn ha suonato e registrato la “Decima Sinfonia” di Ludwig van Beethoven, ricostruita attraverso le tecniche di IA. Da artista, umanista, e giurista, quali impressioni suscitano in lei queste prospettive?

Che l’I.A. sia una comodità è innegabile (anche se questa comodità la vedrei in senso catalogico assai più che contemplativo), ma il suo uso sia in campo giuridico che artistico mi preoccupa. Il completamento artificiale dell’“Incompiuta” di Schubert (che, tra l’altro già così lunga poteva restare incompiuta) mi obbliga a formulare una puerile ma sostanziosa domanda: chi gode? Dov’è finita la gioia dell’artista che per complicità intrinseca regala gioia all’ascoltatore?

Visto che abbiamo incrociato il tema della tecnologia, vorrei chiederle qualche riflessione sulla tutela del diritto d’autore nell’epoca digitale. Oggi la tecnica rende estremamente più agevoli forme di ri-creazione artistica tramite sampling, accorpamenti, integrazioni, sollevando a più riprese la questione dei confini tra il “mio”, il “tuo” e il “nostro” nel patrimonio musicale. Le controversie che ne discendono sono molto rilevanti, anche in termini economici, ma spesso dimentichiamo che una parte cospicua della tradizione musicale occidentale si è sviluppata non soltanto in assenza del diritto d’autore, ma anzi elevando proprio a canone compositivo l’adattamento di opere altrui (basti pensare a Bach o Händel). La tradizione del jazz, peraltro, è sempre stata programmaticamente aperta a fenomeni di riutilizzazione del materiale musicale preesistente ben oltre i limiti formalmente fissati dal diritto d’autore. Da compositore e giurista ha qualche aneddoto da raccontarci o riflessione da condividere?

Sto ancora lavorando con un amico jazzista molto ferrato in Jazz antico, su un mistero autoriale. Il magnifico tema “Wild man blues”, un classico del repertorio del Jazz antico, è stato composto nel 1926 dal grande Jelly Roll Morton, il quale poco dopo lo registrò su disco con la sua orchestra in una versione peraltro grigia e poco empatica. L’anno seguente (1927) Louis Armstrong ne “scolpì” una versione di monumentale bellezza, ma senza tradire l’originale disegno armonico e melodico. Da quel momento il brano risulta firmato “Morton - Armstrong”, i due non si conoscevano né si frequentavano. Dal punto di vista della paternità della “composizione” basterebbe il solo nome di Morton, ma gli editori, pare, hanno mescolato le acque. È un illecito eloquente nel senso da Lei evidenziato.

Il grande giurista tedesco Anthon Justus Thibaut, autore del famoso pamphlet sull’utilità della codificazione a cui risponderà Savigny con il celebre “Sulla vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza”, fu altresì una figura di spicco della musicologia tedesca. Gli viene attribuita la seguente frase: “La giurisprudenza è la mia occupazione, la sala da musica è il mio tempio: Benedetto Marcello mi offre il testo per elevarmi, Händel tiene il sermone, con Palestrina venero il mio Dio”. Si ritrova, mutatis mutandis, in questa proposizione? E vorrebbe dirci, eventualmente, alcuni dei nomi che compongono il suo pantheon musicale?

Il Pantheon musicale? In una così vasta presenza di straordinarie possibilità si procede un po’ forse per affinità elettive… Nel campo classico: Schumann, Chopin, Frank, Verdi, Rossini, Scarlatti, ecc. ecc. Nel campo Jazz: Morton, Armstrong, Bechet, Hines, Tatum, Wilson, Tricky Sam, ecc. ecc.