Leggendo negli scorsi giorni i contributi su quella che il Dubbio ha definito la “difesa interrotta” raccontata da alcuni colleghi in relazione a processi penali, il pensiero è immediatamente corso a tutte le volte in cui, come studio legale nel quale fra le attività principali abbiamo scelto la difesa dei richiedenti asilo, condotte analoghe hanno visto mortificati i principi del giusto processo. Una doverosa premessa per permettere ai lettori di calarsi nella situazione: l’audizione del rifugiato nelle cause per domanda di protezione internazionale è il momento centrale del processo. Nel diritto di asilo, infatti, le dichiarazioni del richiedente sono spesso l’unica fonte di prova, e dunque dei fatti costitutivi il diritto. Come osservato dall’autorevole dr. Luca Minniti, giudice della sezione specializzata del Tribunale di Firenze, “nel diritto di asilo, la valutazione probatoria si avvale di uno standard inferiore, laddove la disciplina in esame consente al racconto della parte - anche se a sé favorevole, purché coerente, articolato e plausibile - di costituire sufficiente prova dei fatti narrati. (…) Si tratta di un passaggio complesso per la cultura della prova del giudice civile, al quale si aggiungono altre peculiari difficoltà.” Mesi fa, davanti a un Tribunale presso il quale non avevo mai operato e molto distante geograficamente dal mio Foro, durante l’audizione del mio assistito in udienza che si svolgeva in videoconferenza, il Giudice - che si occupava di interrogare il richiedente e verbalizzare le sue risposte - stravolgeva il senso del racconto appiattendolo su un racconto standardizzato. Questa (non infrequente, purtroppo) tendenza, per motivi sopra illustrati, è un rischio che può causare una irrimediabile compromissione dei diritti dei miei assistiti. Ho provato ad interloquire con il giudice, il quale mi ha chiesto di tacere per non interferire nell’audizione. Riservandomi quindi di elencare le mie osservazioni al momento della rilettura del verbale, ho iniziato ad appuntare le risposte del mio assistito. Quando il Giudice si è accorto del fatto che stavo prendendo appunti, ha interrotto l’audizione e con toni molto più alti del necessario mi ha chiesto: “Avvocato, ma lei lo sa che è vietato registrare l’udienza?”. Davanti alla mia obiezione per la quale anche a un’udienza dal vivo avrei potuto prendere appunti, mi è stato risposto che forse non mi rendevo conto che stavo commettendo un reato. Per non incorrere nel grave reato di “appunti” (in realtà solo per stemperare gli animi e non nuocere al mio cliente) interrompevo la mia attività e mi rassegnavo a subire una verbalizzazione distorsiva delle dichiarazioni del mio assistito. Non sarebbe stata, purtroppo, né la prima e tantomeno l’ultima volta. Non è bastato, poiché alla fine dell’audizione ho anche dovuto sorbirmi una bella ramanzina sul senso del mio lavoro. Sarà perché sono giovane, perché donna, perché battagliera…il mansplaining, forse non lo sapevate, è di gran moda nelle aule di Tribunale. “Avvocato, ma lei non l’ha capito che questi raccontano tutti la stessa storia? E lei mi viene a chiedere l’asilo o la protezione sussidiaria? Chiedete la protezione umanitaria, se hanno il lavoro ve la concediamo. Non state a farci perdere tempo, anche per la vostra dignità: non fate bella figura a farvi prendere in giro così da questi. Ma davvero non lo capisce che vi prendono in giro e le storie sono finte?”. E anche quel giorno, con buona pace della Costituzione, della Carta UE, della Convenzione di Ginevra e (soprattutto) del buongusto, questa giovane avvocatessa ha imparato qualcosa di utile da un fine giurista e il suo assistito è stato discriminato in quanto immigrato. Niente di nuovo sotto il sole, insomma.