«Nessun magistrato dovrebbe mai ricoprire il ruolo di moralizzatore, non gli compete assolutamente. Ha un ruolo diverso: ricerca le prove, la verità, accerta i fatti e rende giustizia nell’interesse dei cittadini. Non è compito del magistrato esprimere giudizi morali». A dirlo al Dubbio è Alessandra Maddalena, vicepresidente dell’Anm ed esponente della corrente Unicost, secondo cui «il sistema giudiziario deve parlare all’esterno, ma deve anche saper resistere ai richiami del protagonismo mediatico: la giustizia è credibile anche in relazione all’immagine che di sé dà all’esterno».

Oggi entra in vigore il decreto legislativo che disciplina la diffusione di informazioni sulle indagini giudiziarie. Come interpreta questa novità?

Lo spirito di fondo è assolutamente condivisibile. L’informazione giudiziaria è necessaria, in quanto è uno strumento di controllo democratico del modo in cui viene esercitata la giustizia. E sicuramente è importante anche informare sui successi investigativi, perché serve a rafforzare la fiducia dei cittadini e la loro voglia di collaborare. In questo modo, in certi territori, si combatte l'omertà e non lasciamo soli i magistrati di trincea, che rischiano la vita. Ma l’altro aspetto del discorso è la tutela della dignità dell’indagato e dell’imputato fino a sentenza definitiva.

Il sistema giudiziario deve parlare all’esterno, ma deve anche saper resistere ai richiami del protagonismo mediatico, al sensazionalismo. Che produce l’effetto contrario: abbassare la fiducia nella giurisdizione, perché può creare l’impressione che si vada in cerca di popolarità attraverso l’indagine e che la stessa sia uno strumento per costruire carriere. La giustizia è credibile anche in relazione all’immagine che di sé dà all’esterno.

Cosa bisogna fare per scongiurare abusi e strumentalizzazioni?

È necessario che l’informazione sia resa sempre in maniera chiara, continente, sobria, evitando anche giudizi morali, che talvolta leggiamo anche in atti giudiziari e che poi vengono portati all’esterno. Bisognerebbe anche intervenire sulla formazione, a partire dalla Scuola superiore della magistratura. Il primo dovere del magistrato è rendere un’informazione corretta, perché un’informazione impropria può essere resa ancora più scorretta da un’eventuale alterazione ed enfatizzazione, producendo una visione totalmente distorta della giustizia e creando nel pubblico la certezza di colpevolezza di chi è indagato, con la lesione della presunzione d’innocenza.

Quando nella fase delle indagini si utilizza questo tipo di comunicazione potrebbero rimanerne vittima anche i giudici e si potrebbe dare l’immagine di una giurisdizione arbitraria, perché di fronte ad una aspettativa di condanna, un’assoluzione fa nascere un sentimento di diffidenza. E il problema è talmente serio che anche il Csm, nel 2018, aveva dettato delle linee guida proprio sulla corretta comunicazione istituzionale, segnalando la necessità di una comunicazione essenziale e oggettiva.

Alcuni magistrati hanno interpretato questa direttiva come un bavaglio, sia per le toghe sia per la stampa. Cosa risponde ai suoi colleghi?

Non mi sento di parlare di bavaglio e non immagino che l’intento del legislatore fosse quello di imbavagliare qualcuno, ma di attuare una direttiva che voleva un rafforzamento della tutela della dignità dell’indagato e dell’imputato. Se poi mi chiede se questo strumento possa realizzare questo obiettivo o non possa produrre addirittura effetti pregiudizievoli allora le dico che qualche dubbio lo nutro.

Perché?

La modalità di comunicazione è stata ristretta al comunicato ufficiale, limitando la conferenza stampa a casi particolari. La cosa di per sé è comprensibile e anche giustificata, perché assicura la comunicazione mettendo gli organi di stampa in parità di condizioni ed evitando la precostituzione di canali riservati con organi di informazione. Ma non lo è in questa forma così assoluta. Neanche la direttiva europea prevedeva questo tipo di restrizione e potrebbero porsi dei problemi quando ci sono situazioni di tale urgenza e rilevanza pubblica per cui da una parte potrebbero non esserci i tempi minimi per organizzare una conferenza stampa e dall’altro potrebbe risultare non efficace un comunicato scritto. Sarebbe stato opportuno quantomeno prevedere un’eccezione nel caso di particolari urgenze. Il dubbio è anche che mettendo paletti troppo stretti in qualche modo le notizie continuino a circolare in maniera poco trasparente, aggirando il problema. Quello della comunicazione è un problema innanzitutto culturale, deontologico.

I rimedi che sono stati introdotti da un lato potrebbero non essere effettivamente risolutivi, perché una volta che una comunicazione errata è stata resa non sarà la rettifica a risolvere il problema e dall’altra parte la stessa rettifica, con la possibilità di ricorrere al giudice con la procedura d’urgenza, probabilmente si traduce in un appesantimento complessivo della macchina giudiziaria, che potrebbe non essere risolutivo davvero. Inoltre la previsione generica di un obbligo di risarcimento del danno potrebbe in qualche modo indurre il magistrato ad ammorbidire sempre la propria posizione per evitare azioni risarcitorie in caso di dichiarazioni extrafunzionali, ma anche nei provvedimenti cautelari: si potrebbe essere indotti ad evitare delle espressioni più decise, anche se funzionali alla motivazioni sulla gravità indiziaria, per non incorrere nella violazione di quella regola non chiarissima introdotta nel decreto e quindi evitare richieste strumentali di correzione di passaggi semplicemente sgraditi all’indagato.

Il procuratore de Raho, in un’intervista, sostiene che i magistrati devono stare fuori dai circoli mediatici. Eppure ci sono magistrati molto esposti mediaticamente.

Condivido le dichiarazioni del procuratore e il giudizio negativo sulla spettacolarizzazione e l’eccessiva presenza dei magistrati nei talk show televisivi, che non credo assolutamente serva a rafforzare la credibilità della giustizia o a recuperare il prestigio dell’ordine giudiziario. Sensazionalismo e protagonismo sono da respingere. E penso alle parole di Livatino, che parlava del magistrato che lavora nelle sue stanze senza preoccuparsi di apparire. Il magistrato deve dare l'immagine di chi è alla ricerca della giustizia, in un senso o nell’altro, né colpevolista né innocentista, ma in maniera oggettiva, nella sostanza e nella comunicazione.