Fausto Bertinotti, che di barricate sindacali e scontri tra governo e parti sociali se ne intende, definisce «un atto di coraggio» lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil per il prossimo 16 dicembre.

Presidente, come si è arrivati a questa scelta?

A me sembra una decisione presa dopo un lungo periodo in cui i sindacati hanno tenuto a bada le istanze dei lavoratori in nome di un credito dato alla compagine governativa e legato al clima generale di “indiscutibilità” di tutto ciò che fa questo governo e all’assetto politico che lo sorregge. Ma molte istanze che avrebbero dovuto essere affrontate con tutt’altra radicalità, penso al salario minimo, non sono state affrontate. Non so come si faccia a non essere scandalizzati dall’aumento delle povertà e delle disuguaglianze presente nel Paese e certificato anche dall’Istat.

Il governo si difende e giudica «con sorpresa» l’annuncio dei sindacati. Se l’aspettava?

Beh, diciamo che le misure del governo che favoriscono i ceti abbienti hanno fatto traboccare il vaso. In altri tempi quello attuale si sarebbe chiamato il governo dei ricchi. Oggi queste denunce sono fuori moda ma Cgil e Uil hanno fatto una scelta dovuta e necessaria di fronte a provvedimenti che confermano la tendenza. Il governo, invece di mettere tutte le risorse a disposizione in favore della lotta alla povertà e per aumentare il lavoro, ha fatto un’altra scelta e per quello che mi riguarda lo sciopero è un atto di coraggio.

La Cisl si è tirata indietro spiegando che si rischia lo scontro sociale in un momento ancora difficile per il paese. Che ne pensa?

Penso che la matrice tecnico oligarchica del governo sia dannosa per il Paese e che il conflitto con Cgil e Uil sia anzi utile al Paese. Intendiamoci, le misure della manovra favoriscono la crescita. Ma non incidono minimamente sulla povertà che anzi si espande e sul lavoro che anzi viene ulteriormente penalizzato. Vorrei ricordare che il salario generale negli ultimi trent’anni in Italia è sceso del 2,9 per cento, mentre in Germania è aumentato del 30 per cento. Siamo di fronte a un lungo corso di penalizzazione del salario e se neppure di fronte a misure che utilizzano investimenti pubblici a favore della crescita si mette mano a questa ingiustizia, beh allora non resta che lo sciopero.

Crede sia ancora possibile un dialogo tra le parti, come auspicato dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando?

Il problema principale che oggi il Paese ha di fronte è quello del recupero di un rapporto tra istituzioni e popolo. Dove per istituzioni intendo sia il Parlamento sia i corpi intermedi come partiti e sindacati. C’è una frattura, uno iato drammatico che è un problema per la democrazia. Basti pensare che alle ultime Amministrative metà degli elettori non ha votato. Bisogna cercare di riallacciare il rapporto tra istituzioni e cittadini.

Guardando alle scelte fatte, dall’Irpef all’Irap, dai pensionati al caro bollette, cosa manca in questa manovra?

Manca l’essenziale. Cioè una misura perequativa ed egualitaria. Manca una politica per l’eguaglianza. È vero, ci sono aspetti positivi nella manovra, ma il quadro generale da cosa è segnato? Vorrei che il governo spiegasse quali misure prende per ridurre drasticamente la povertà e la precarietà nel lavoro. In Italia siamo di fronte a un fenomeno sconosciuto nei trent’anni gloriosi e che oggi affligge le nuove generazioni, per le quali spesso lavoro e povertà stanno scandalosamente insieme.

Una soluzione per risolvere la crisi?

Non un sindacalista arrabbiato, ma il presidente degli Stati Uniti, di fronte all’assunto che i giovani non accettano determinati lavori, ha detto semplicemente «pagateli di più». Ecco, servono misure che vadano in questa direzione. Con il salario minimo, con il salario sociale, con la tassazione ai ricchi, con qualunque cosa purché si trovi un modo. Invece ci sono solo misure che leniscono alcune di queste più drammatiche contraddizioni senza affrontare il problema che le genera. Se mai il giudizio dei sindacati non è severo quanto dovrebbe, altro che la difesa fatta da palazzo Chigi.