Un’ossessione. Per Leonardo Sciascia l’amministrazione della Giustizia è questo. Si sente simile allo scrittore francese Andrè Gide, cui capita l’” avventura” di essere giudice popolare; ne ricava indelebile esperienza; dopodiché inaugura per l’editore Gallimard una collana intitolata “Non giudicate”. Non a caso Sciascia cura per la Sellerio la pubblicazione de “Il caso Redureau” dello stesso Gide: un adolescente che massacra senza comprensibile motivo la famiglia presso cui presta servizio.

«Il problema della giustizia è sempre esistito; e chi c’è andato dietro ne ha scoperto le assurdità, le corruzioni, insomma tutto quello che noi sappiamo, che è inerente al funzionamento della giustizia», dice Sciascia; e si «sente» come un sospiro di rammarico per dover fare qualcosa che non si vorrebbe, e che in fondo al cuore ripugna: una dolorosa, inevitabile, «necessità».

Il 1 dicembre Il Dubbio ha pubblicato uno scritto di Sciascia: la prefazione a un libro di Raffaele Genah e di chi scrive: “Storie di ordinaria ingiustizia”: collezione di incredibili vicende consumate in nome del popolo italiano; e qui basti citare il caso di una donna per lungo tempo detenuta per illegale detenzione d’arma: e si trattava della pistola giocattolo ( di plastica), del figlioletto. E’ il 1987 quando chiediamo a Sciascia una sua riflessione da usare come prefazione. Operazione meritoria, quella del Dubbio, di riproporre un testo che nulla ha perso della sua inquietante attualità. Peccato solo sia “saltato” il finale capoverso, importante forse più oggi di quando è stato scritto: «Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto. Ma non che il referendum sulla responsabilità dei giudici possa risolvere il problema, anche se può apporvi qualche rimedio il problema vero, assoluto, è di coscienza, è di “religione”».

Passaggio importante non solo perché, Corte Costituzionale permettendo, a primavera si voterà per sei referendum per una giustizia più giusta ( ne tenga conto, chi deve: penosamente, ma inevitabilmente, chi giudica sarà giudicato). Soprattutto perché occorre cercare di recuperare quel senso di coscienza, di “religione”, perduto.

Conviene, a questo punto, rileggere un libro di Sciascia del 1976: “Il contesto”. Il colloquio tra il commissario Rogas e Riches, presidente della Corte Suprema. Parlano della giustizia, di come viene amministrata. Dice il giudice Riches: «... Prendiamo la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo».

Timidamente il commissario obietta: «E i gradi di giudizio, la possibilità dei ricorsi, degli appelli...». Riches non ammette obiezioni: «Postulano, lei vuole dire, la possibilità dell’errore... ma non è così. Postulano soltanto l’esistenza di un’opinione diciamo laica sulla giustizia, sull’amministrazione della giustizia. Un’opinione che sta al di fuori. Ora quando una religione comincia a tener conto dell’opinione laica, è ben morta, anche se non sa di esserlo. E così è la giustizia, l’amministrazione della giustizia...». Uno sfacelo da attribuire agli illuministi, in particolare a Voltaire, al “Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas”: il punto di partenza dell’errore: dell’errore che potesse esistere il cosiddetto errore giudiziario: «... la giustizia siede su un perenne stato di pericolo, su un perenne stato di guerra... la sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di più: non c’è mai stato. Ma ora viene il momento di teorizzarlo, di codificarlo...».

In magistratura abbonando i giudici alla Riches; più oggi di ieri. Ha fatto scalpore “Il sistema”, il libro colloquio di Luca Palamara e Alessandro Sallusti: ma quanti l’hanno davvero letto e capito, voluto capire?. Più di recente, di un altro libro si è scritto e parlato; e male: perdendo di vista il cuore dei problemi che pone. Il libro è “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, dell’ex magistrato Ilda Boccassini. L’attenzione, un po’ da guardoni, si è concentrata sul quarto capitolo, racconto di una intima storia con Giovanni Falcone: di fatto “distrae” dalla sostanza delle questioni.

La sostanza è il racconto di anni e anni di storia di magistrati, del loro questo sì discutibile operare per acquisire e difendere postazioni di potere e carriera; le spartizioni, i boicottaggi, i servilismi: il quadro desolante e desolato della magistratura, e di uffici giudiziari particolarmente importanti: quelli di Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta; il lato meschino, vanesio, di “toghe” famose; i metodi di spartizione per l’attribuzione dei vertici apicali della magistratura da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Una scena e mille retroscena, deprimenti: giustificano quello che probabilmente Boccassini neppure si sogna: la campagna referendaria per una giustizia più giusta. Eppure di tutti i capitoli del libro, solo il quarto, pare abbia catturato l’attenzione e l’interesse di quanti se ne sono occupati. Una “indifferenza” che la dice lunga sul quotidiano, diffuso, smarrimento di “coscienza”, di laica, sciasciana, “religione”.