Nel primo “rimbalzo ciclico” della crisi legata alla pandemia, il Sud cresce. Un po’ meno del Nord ma cresce. E resta al vertice delle classifiche per area geografica rispetto a un parametro del tutto particolare: la domanda di giustizia e la conseguente maggiore durata dei procedimenti. Sono dati offerti dal Rapporto 2021 sull’economia e la società del Mezzogiorno, diffuso ieri dallo Svimez. Uno studio centrato innanzitutto sull’impatto del Pnrr e sulla possibilità che i miliardi assicurati dall’Ue aiutino, fra le tante cose, anche a ridurre il divario fra Nord e Sud del Paese. Un tema “storico” e, certo, reso perfino affascinante dalle prospettive legate al Recovery. Eppure dietro i numeri, dietro le statistiche non sorprendenti sui giorni di attesa per avere giustizia, per ottenere una prima sentenza sia nel civile che nel penale, quasi doppi al Sud, dove si raggiunge la media dei 500 giorni, affiora un altro interrogativo: c’è il rischio che il mito efficientista costruito attorno al Pnrr ci porti verso un modello di giustizia devoto al rispetto dei parametri più che alla qualità della giurisdizione? Non è un interrogativo ozioso, se si considera che attorno alla dialettica fra “score” dei tribunali ed effettivo accesso alla giustizia si gioca per esempio la riforma del processo civile appena approvata. Ad avvalorare il timore di uno sbilanciamento “quantitativo” rispetto alle garanzie è una figura centrale nel sistema ordinistico come il presidente del Coa di Napoli Antonio Tafuri: «Sì, c’è il rischio che si vada verso un modello di giustizia in cui la rapidità schiaccia l’equità delle decisioni. È d’altra parte il messaggio sotteso alla riforma del processo civile, che il governo ha consapevolmente disegnato e che ormai il Parlamento ha vidimato con l’approvazione dei giorni scorsi: viene prima la rapidità, poi il resto».Tafuri fa notare come «la posizione assunta dall’intera avvocatura sulle riforme della giustizia segnali proprio lo sbilanciamento di cui parliamo. Certo nel civile si nota in modo particolare. Basti pensare», nota il presidente dell’Ordine partenopeo, «alle modifiche che impongono di anticipare tutte le domande e gli elementi della controversia, ma anche alla perdita di collegialità in diversi ambiti». La retorica efficientista veicolata con le riforme del Pnrr può cambiare anche la cultura diffusa? La rapidità a tutti i costi inseguita anche in un settore delicatissimo come la giustizia, che tocca la vita delle persone, può condurre verso un approccio nuovo, più “anglosassone”? «Non credo», replica Tafuri, «il modello della rapidità a tutti i costi è coltivato dalle élites politiche, nei centri decisionali, ma il comune utente del servizio giustizia non è, e credo mai sarà, disposto a barattare la qualità e l’effettività della tutela con i tempi delle decisioni. D’altra parte, ci si rende conto meglio delle questioni in gioco quando se ne è toccati in prima persona. Cominceremo a capire tutto con chiarezza quando ci arriveranno le prime sentenze emesse dall’Ufficio del processo: non sarà un giudice a studiare e valutare davvero la controversia ma degli ausiliari. Con tutto il deficit che ne può conseguire in termini di garanzie».

I DATI DELLO SVIMEZ

Si diceva dei dati a doppio risvolto raccolti dallo Svimez. Da una parte, il Mezzogiorno esprime una più intensa domanda di giustizia: la media dei casi iscritti a ruolo è di 777 per ogni 10mila abitanti, un po’ più che nel Centro Italia (704) e molto più che al Nord (541). Non sorprende che la lenta ma costante riduzione dei tempi medi per la chiusura di un procedimento civile sia quasi dimezzata nel Settentrione (280 giorni) rispetto al Sud (quasi 500 giorni), con il Centro a metà strada (380). Non è solo un problema di modelli organizzativi ma anche di maggior carico, appunto: e fin dove ci si può spingere, con la cosiddetta “ottimizzazione”? Un osservatore pronto a utilizzare proprio i numeri come il presidente dell’Unine Ordini forensi della Toscana Fabrizio Spagnoli indica un ulteriore pericolo: sottovalutare «la assoluta disomogeneità delle forze su cui può fare affidamento la macchina della giustizia. Le statistiche sono lapidarie, non raccontano che spesso le differenze fra un ufficio giudiziario e l’altro sono legate al diverso numero di magistrati e di unità di personale amministrativo. Posso citare il mio foro, Livorno, come esempio: l’organico degli amministrativi è coperto all’80 per cento, e se consideriamo tirocinanti e altre figure possiamo dire di essere a ranghi completi: sarà un caso», osserva il presidente Spagnoli, «ma Livorno è uno dei tribunali migliori d’Italia, per le statistiche. Peccato che se si guarda all’intero paese il panorama sia a macchia di leopardo, quanto a organici e, in modo quasi sempre correlato, rispetto all’efficienza».La soluzione scelta dal governo è sbilanciata sull’Ufficio del processo: «Un’indicazione chiara, ma sulla cui efficacia è legittimo avere qualche perplessità: un conto è il personale di magistratura, altro sono figure come quelle che si sta per immettere nel sistema. Certo», osserva il presidente dell’Unione Ordini della Toscana, «parliamo di un costo diverso per i conti dello Stato: sull’Ufficio del processo ci si gioca un investimento da 2 miliardi, circa il 30 per cento del bilancio della giustizia. A me non sembra una cifra enorme, rispetto a voci di spesa come quella per il reddito di cittadinanza». Quale può essere il punto di caduta? La preoccupazione di Spagnoli è che, «se pure si ridurrà la durata dei processi, non so se del 40 per cento come abbiamo promesso all’Ue, il risultato arrivi a discapito della qualità. Il governo ha fatto una scelta, vediamo se sarà premiata». Però l’efficienza ha un prezzo. Se per raggiungerla si punta su un modello quantitativo, su uno smaltimento seriale, le statistiche migliorano: vedremo se per la data fatidica del 2025, quando si dovrà ridurre del 40 per cento, appunto, la durata delle cause civili, potremo dirci soddisfatti anche della qualità delle sentenze, oltre che del loro numero.