«Sono assolutamente convinto che Alex abbia agito per la necessità di difendere se stesso, il fratello e la mamma: quella sera, quando ha visto il padre andare verso i coltelli, non ha più avuto nessun dubbio». L’avvocato Claudio Strata ne è certo. Quella della Corte di Assise di Torino, che mercoledì scorso ha assolto il suo assistito Alex Pompa perché “il fatto non costituisce reato”, è una sentenza «giusta». Anzi, «giustissima». Perché quella sera del 30 aprile 2020, quando Alex, appena maggiorenne, uccise suo padre con 34 coltellate nella casa di Collegno, agì per «legittima difesa». Che non vuol dire – chiarisce il legale - «licenza di uccidere»: «Non doveva finire così, ma non è colpa di Alex se è finita così».

Avvocato Strata, come ha costruito la difesa?

Abbiamo avuto la fortuna di poter ricostruire almeno gli ultimi due anni di vita in casa Pompa, e non solo attraverso le testimonianze, che possono essere insidiose. Le prove dichiarative, per definizione, sono sempre pericolose perché possono essere “colorite” e soggettive. E come ci dice la giurisprudenza della Cassazione, le dichiarazioni di chi è portatore di un interesse devono essere prese con le pinze. Ma in questo caso avevamo delle registrazioni audio e tantissimi messaggi, inviati dai ragazzi agli amici o alle fidanzate dell’epoca, che hanno permesso di ricostruire in modo preciso tutta la cronologia di episodi di gravissime intemperanze e violenze da parte del padre. Siamo partiti dai messaggi inviati nel 2018 da Loris, fratello maggiore di Alex, dai quali già emergeva chiaramente l’inferno vissuto in casa, nella convinzione che il padre prima o poi li “avrebbe ammazzati tutti”. Parliamo di file vocali, una miniera di informazioni, datate con certezza tramite perizia forense, che ci hanno permesso di dimostrare che le violenze sono continuate fino al 30 aprile.

Cosa dicono i messaggi di quella sera?

C’è un elemento che ha una oggettività ineccepibile. Alle ore 22.26 del 30 aprile 2020, Loris scrive un messaggio allo zio, dopo aver raccolto al telefono le minacce del padre. Che quella sera era furioso, perché aveva visto un collega della moglie appoggiarle una mano sulla spalla al supermercato. Nella mente di Giuseppe Pompa quella scena provava il tradimento di cui sospettava da un anno e mezzo. Così torna a casa, e comincia ad aggredire la moglie. Dopo due ore di trambusto, Loris scrive allo zio e gli dice: «Cosa aspetti a intervenire, stiamo rischiando la vita». Dopo altri 16 minuti, c'è la chiamata di Alex ai carabinieri, che ho chiesto di acquisire e trascrivere, in cui il ragazzo dice: «Mio padre ci voleva uccidere tutti, me mio fratello e mia mamma, sono riuscito a prendere un coltello e mi sa che l’ho ucciso io», poi comincia a piangere disperatamente. Ma per l’accusa, tutti questi dati non dimostrano nulla.

Temeva che anche i giudici potessero interpretarli diversamente?

La procura ha molto svalutato il contenuto di questi elementi. E temevo che la Corte potesse accogliere l’interpretazione dell’accusa. Ma a mio parere si trattava di dati gravemente indiziari di un comportamento estremamente violento, persecutorio, ossessivo, al limite del paranoico, di questo papà. Gli stessi ragazzi, dopo quella sera, hanno raccontato di aver creduto di non avere alternative, essendo chiusi in casa a chiave, come era solito fare il padre. Alle porte dell’udienza preliminare, la procura non aveva ancora né letto, né ascoltato la trascrizione dei messaggi vocali che i ragazzi hanno messo a disposizione. E quando poi si sono decisi a leggerli, sia la procura che i carabinieri, li hanno considerati messaggi poco significativi. Invece lì c’era la prova di ciò che succedeva in casa.

Come descriverebbe il clima in casa Pompa?

C’era una situazione che mi sono permesso di definire di “scuola di legittima difesa” imminente e permanente. Il pericolo imminente non si è creato quella sera, ma c’era da anni, appunto. Da quando la sera si coricavano temendo di non trovare viva la mamma l’indomani. La differenza, con altri casi assimilabili, è nelle 34 coltellate inflitte al padre che hanno sempre fatto pensare, sia al gip che al Tribunale della libertà, che si trattasse di una reazione punitiva di rabbia nei confronti del padre. Ma abbiamo dimostrato, attraverso quegli audio, che anche in altre occasioni Alex ha agito solo per contenere la violenza. E quella sera, quando ha visto il padre andare verso i coltelli, non ha più avuto nessun dubbio.

Piena legittima difesa, quindi.

Abbiamo avuto anche la possibilità di sostenere che, se pure ci fosse stata una interpretazione enfatizzata della situazione di pericolo, questo derivava dal fatto che Alex è risultato seminfermo di mente. Perché, come hanno spiegato tre psichiatri (compreso quello del pm), Alex ha un disturbo post traumatico con un danno biologico del 30 per cento, per aver assistito a violenze per tutta la vita. Un danno altissimo per un ragazzo di appena 18 anni. Questa fragilità certamente non lo ho aiutato quella sera a valutare correttamente la situazione, ma si tratta di una ipotesi subordinata perché ho voluto centrare la linea difensiva sulla legittima difesa, alla luce di una situazione di pericolo percepita ormai non più dubbia. E di un precedente importante.

Quale?

Ho trovato una sentenza degli anni ’70, che è stata riportata in un libro, “Per questi motivi”, scritto da un magistrato di grande rilievo, Piero Pajardi. Il quale ha raccontato un caso di cui si è occupato come magistrato della Corte di Assise di Milano: l’assoluzione di una donna che aveva sparato al marito nel sonno. In quel caso avevano riconosciuto l’attualità della necessità di difendersi anche di fronte a un uomo che stava dormendo, perché si era creata una situazione di pericolo talmente immanente e grave che ha permesso alla Corte di stabilire che quel pericolo non era cessato ma si sarebbe ripresentato. Un tema sul quale ci eravamo già scontrati con il Tribunale della libertà e il Gip.

Perché?

All’inizio i giudici hanno scritto che le minacce di morte ricevute dal padre potevano verosimilmente essere minacce “di fare del male”. E io trovo queste affermazioni gravissime da parte di un giudice. La prima e corretta interpretazione di una minaccia di morte, è che sia reale. Bisogna cominciare a prendere sul serio ciò che le donne denunciano. Troppo spesso queste vicende vengono sottovalutate, anche perché non c’è una corretta formazione degli operanti, della polizia, dei magistrati, affinché riascano a fotografare la reale situazione che viene rappresentata. Insomma, serve maggiore formazione e prevenzione per contrastare la violenza sulle le donne.

Questa sentenza arriva alla vigilia di una data importante, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Crede che farà scuola?

Sì, assolutamente. Sarà una sentenza importantissima. Ho dimostrato che l’esperienza, in questi casi, dimostra che in un soggetto giudicato fragile, seminfermo, non c’è la possibilità di comprendere esattamente come la situazione di pericolo stia evolvendo. E a proposito del numero di coltellate inferte, bisogna ricordare che per la Cassazione si può reagire a un grosso pericolo in modo “scomposto”. Alex ha sentito di dover “distruggere” il pericolo. I medici legali hanno spiegato che il tipo di coltellate erano sintomatiche di scariche rapidissime, vicinissime, proprio come se ci fosse la paura di non poter fermare suo padre: in quel momento di follia piena, di abisso, Alex ha perso il controllo, e ha sentito il bisogno non più rinviabile di mettere in essere un’azione difensiva, anche con caratteristiche violente. Quelle coltellate sono la manifestazione de l’animus defendendi. Ciò che credo troveremo nelle motivazioni della sentenza.

Lei in aula ha sottolineato la necessità che non passi un messaggio sbagliato.

Assolutamente. Alex “non ha fatto bene”, come si è letto. E chi lo dice, sbaglia, non ha capito. Non doveva finire così, ma non è colpa di Alex se è finita così.