La proposta Letta non decollerà. È molto difficile che il suo «tavolo dei leader di maggioranza con Mario Draghi per blindare la legge di bilancio» venga mai convocato e se mai capiterà servirà a poco. Conte lo ha sgambettato con una sgangherata controproposta di riforme istituzionali per le quali non basterebbe il tempo neppure se la legislatura arrivasse sino all'ultimo secondo valido.

Draghi ha fatto filtrare un parere quasi infastidito, segnalando che la faccenda è competenza delle Camere e non di un consesso di capipartito. Matteo Renzi la ha bollata come «un errore politico», dal momento che vincolava in qualche misura la legge di bilancio all'elezione del presidente.

Le ragioni di Matteo Renzi

Ciascuno ha le proprie buone ragioni per affondare la prospettiva suggerita da Letta, anche se quelle di Conte non sono chiare. Matteo Renzi ne ha più di chiunque altro dal momento che quell'ipotesi era almeno in parte motivata proprio dalla necessità di rendere superflua Italia viva, togliendo così al suo leader ogni spazio di manovra.

Nella visione di Letta dovrebbe essere l'intera maggioranza a scegliere non solo il prossimo presidente ma, ove si trattasse di Draghi, anche il premier che ne prenderebbe il posto per evitare quelle elezioni nel 2022 che tutti, tranne Giorgia Meloni, considerano una jattura. A Renzi non sarebbe rimasto altro ruolo oltre quello di chi si accoda e uniforma alle scelte dei partiti maggiori.

I timori del Pd

Non che sia questa l'unica ragion d'essere dell'ipotesi messa in campo da Letta. Il Pd teme davvero una guerra sul presidente, effettivamente più che possibile senza un'intesa preventiva, dalla quale uscirebbero probabilmente una destra vincitrice e una maggioranza a pezzi. Ma la necessità di impastoiare Matteo Renzi non è una spinta secondaria, come provato del resto dalla violentissima campagna scatenata contro l'ex premier in questi giorni.

L'abilità di Renzi in questo genere di manovre è fuori discussione, dimostrata più volte nel corso di questa legislatura: prima facendo nascere il governo gialloverde, poi evitando le elezioni nel 2019 con un governo giallorosso che lo stesso Matteo Renzi avrebbe voluto di brevissima durata e che è stato tenuto in piedi più a lungo solo dalla crisi Covid, infine con la caduta di Conte e l'insediamento di Draghi. Forte di una pattuglia di parlamentari forse indispensabile e soprattutto della sua capacità di tessere reti, Renzi vuole essere il king maker del prossimo capo dello Stato e non perde occasione per farlo capire. Il Pd teme che possa riuscirci.

Le parole di Micciché

Già, ma cosa ha in mente Renzi? Il siciliano Micciché assicura di aver saputo dalla sua viva voce che si prepara a votare Berlusconi. Lui la prende a ridere e offre generosamente un consiglio agli analisti: «I nomi veri sono quelli che escono alla fine». Il presidente dell’Assemblea siciliana però conferma. Il leader di Iv giura di non aver alcuna intenzione di formare coalizioni «con i sovranisti», smentendo così la voce per cui si preparerebbe ad allargare a livello nazionale l'esperienza siciliana, dove Iv governa appunto col centrodestra. Ma si sa che le assicurazioni di Matteo Renzi vanno sempre prese con le pinze.

Se il ragazzo di Rignano abbia davvero già in mano un nome, come lascia intendere, e nel caso quale sia, è oggi davvero impossibile dirlo. Ma di certo la manovra che sta cercando di mettere in moto intorno alla partita chiave del Quirinale non mira solo ad allontanare le elezioni: è politica, non politicante. Renzi vuole che l'elezione del presidente porti la sua firma, che la variegata pattuglia centrista, da lui organizzata, sia determinante e che l'esito prefiguri un quadro tale da mettere alle corde sia i sovranisti a destra che l'odiata alleanza Pd- 5S a sinistra, in modo da aprire con la dinamite uno spazio per una formazione centrista che potrebbe poi calamitare pezzi sia del Pd che della Lega.

Non si tratta di sentenziare quanto realistico sia questo disegno: saranno i fatti a dirlo. Ma per tentare quella carta Renzi ha bisogno di ereditare quel che resta di Fi che, nonostante non abbia più nulla a che vedere con la portaerei di un tempo resta l'unica formazione centrista con percentuali degne di nota e dunque in grado di attrarre altre componenti di quella galassia. Che punti davvero su Berlusconi non è affatto detto, ma che miri a spartire proprio con il cavaliere regia e proventi dell'operazione è invece quasi certo.