«È stato naturale pensare ad un volume della Biblioteca di cultura giuridica dedicato al rapporto di Sciascia con la giustizia, tema sul quale tutta l’opera dello scrittore di Racalmuto torna in continuazione. Ed è nato così il libro che il lettore ha tra le mani: un libro che interpreta al meglio la filosofia della collana, collocandosi sul confine tra letteratura e diritto, un confine meno definito di quanto si creda, in cui si incrociano riflessioni e sentimenti che segnano le nostre vite». È quanto scrive il Primo Presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, direttore della collana, nella sua presentazione al volume “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia” (Cacucci Editore, pp. 158). Nel libro, curato da Luigi Cavallaro e Roberto Conti (che firmano l’introduzione di cui qui riportiamo un estratto), giuristi autorevoli rileggono alcune tra le più celebri opere di Sciascia, cercandone insegnamenti per chi il diritto lo pratica per mestiere. Chiudono il volume una riflessione di Paolo Squillacioti, curatore delle opere di Sciascia per Adelphi, e un testo dello scrittore siciliano. «Che due magistrati curino un libro scritto da giuristi di varia appartenenza - accademica, forense, giudiziaria - è un fatto piuttosto comune nella prassi, e non meriterebbe di per sé nessuna specifica spiegazione che non sia quella indirettamente ricavabile dal tema che è oggetto dell’opera. Ma trattandosi, nella specie, di un libro scritto da giuristi che riflettono su11’opera di uno scrittore che giurista non fu, due parole in più sono forse opportune, se proprio non necessarie. Non si deve alle radici isolane che pure accomunano i curatori allo scrittore. Benché per ragioni diverse la figura di Leonardo Sciascia sia stata per entrambi presente fin dall’infanzia, lo stesso potrebbe dirsi di quella di Pirandello come di Brancati, di Verga come di Tomasi di Lampedusa: e mai essi avrebbero pensato di poter dedicare un omaggio a costoro, come invece hanno inteso fare allo scrittore racalmutese per il centenario della sua nascita. Il fatto è, piuttosto, che i curatori di questo libro hanno vissuto appieno, nella loro esperienza di giudici e cultori del diritto, la crisi della capacità ordinatrice della fattispecie legale di matrice statuale, sotto la cui ombra rassicurante avevano intrapreso i primi passi della loro formazione. (...) Entrambi i curatori di questo libro sono testimoni di un tempo in cui la legge sembra aver perduto ogni pretesa di verità e in cui, di conseguenza, al giudizio non può più essere ascritta quella funzione di disvelamento che era presupposta dalla tranquillizzante immagine del sillogismo. Ed è proprio qui che essi hanno incontrato la figura di Leonardo Sciascia e il suo inquieto confrontarsi con gli schemi di percezione propri del romanzo giallo: anch’esso nato all’insegna della fiducia nelle capacità di discernimento e rivelazione della ragione e nell’opera sciasciana ridotto invece ad espediente formale per raccontare di una società in cui la verità e la giustizia paiono diventate impossibili. Fu Sciascia stesso, in effetti, a confessare a Claude Ambroise che tutto, ai suoi occhi, era “legato al problema della giustizia” (“in cui s’involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo”); ed è facile constatare come, nell’intera sua opera, l’anelito per la giustizia costituisca l’autentico pendant delle innumerevoli “ingiustizie” (alcune reali, altre immaginate, altre spinte volutamente all’eccesso, al paradosso, alla parodia, alla parabola) di cui sono invece popolate le sue pagine. D’altra parte, se è vero che da queste pagine emerge uno spaccato per nulla edificante del “pianeta giustizia” e dei suoi attori - giudici, avvocati o investigatori che siano: quasi tutti intenti a fabbricare le menzogne di cui si alimenta una “verità giudiziaria” fasulla, ancorché “verosimile” — non è meno vero che, per lo scrittore racalmutese, nella scrittura questo problema può ancora trovare “strazio o riscatto”: ossia ritrovare quella “verità” che un’umanità dolente inutilmente attendeva, a fronte delle fallacie e delle pervicaci e ostinate illogicità ammannitele dalla giustizia “ufficiale”.     Ciò che Sciascia critica in radice, dunque, non è la possibilità “in sé” della verità, ma piuttosto il concreto modo in cui è amministrata la giustizia, intesa come insieme delle istituzioni preposte all’applicazione della legge, a dicere ius: che è conclusione particolarmente interessante per i giuristi, perché alimenta la speranza - affatto assente, invece, in quell’a1tro “giallista” sui generis che è Friedrich Dürrenmatt - che il tempo difficile che pure stiamo vivendo non sia conseguenza di un’irredimibile “crisi della ragione” e sia ancora possibile (oltreché auspicabile) che il giudizio raggiunga non “una” verità qualunque, ma precisamente quella verità che possa dirsi anche “giusta”. Non è però semplice traguardo. (...) Sovviene qui la battuta di Laudisi al commissario Centuri, nel “Così è (se vi pare)” di Pirandello: “Vogliono una verità, non importa quale; pur che sia di fatto, categorica? E lei la dia!”. E si potrebbe perfino cogliere una contraddizione nel pensiero sciasciano, lì dove sembra attribuire all’incedere della giustizia un passo che è “nella totalità dei casi di impressionante lentezza e di atroce peso per coloro che vi si trovano implicati”, salvo poi stigmatizzare gli esiti “non veritieri” di quelle inchieste che si chiudono “con rapidità impressionante”; e legittimamente chiedersi se, ai suoi occhi, l’opera di bilanciamento tra opposti valori alla quale è spesso chiamato il decisore giudiziario sia da condannare come sintomatica di opaci compromessi al ribasso o testimoni invece di quel !ragionare” che egli esige da ogni decisore pubblico, politico o giudiziario che sia. Né ciò è tutto. Si può agevolmente dimostrare che l’equazione tra diritto e ragione espressamente postulata da Sciascia in più luoghi della sua opera presuppone che il termine “ragione” venga a sua volta declinato come sinonimo di ratio, e dunque come “bilanciamento” tra le istanze intrinsecamente conflittuali della libertà individuale e della giustizia sociale. Ma quando lo scrittore insiste sul “ragionare” che sta dietro alla “giustizia” del caso concreto, a quale “diritto” sta pensando? (...) La “verità” e la “giustizia” del diritto sono per Sciascia suscettibili di “conoscenza”? Dove si colloca la “verità” quando si debbono ricostruire i diritti delle persone, sempre più condizionati da una protezione proteiforme che un sistema integrato qual è quello odierno rende complesso individuare? Fino a che punto i valori immanenti alla coscienza sociale storicamente data possono penetrare nell’astratta formula legislativa per riportarla al caso concreto e alle necessità di tutela che esso reclama? C’è o non c’è del metodo in quel “ragionare” che, riempiendo di senso il testo di una disposizione di legge, produce la sua trasformazione in norma? E se il diritto non è suscettibile di un “ragionare” metodologicamente fondato, dove mai si potrà collocare quella differenza tra “verità” ed “errore” che pure si deve postulare, salvo inconsapevolmente parodiare il cinismo con cui il Presidente Riches proclamava che tutte le sue sentenze erano “giuste”? Queste le domande che i curatori di questo libro si son posti sin dai primi concistori in cui ha preso corpo la scommessa che a queste pagine è consegnata. Che vorrebbe essere, né più e né meno, una riflessione a più voci che provi finalmente a prendere sul serio gli interrogativi sul diritto, sulla verità e sulla giustizia che attraversano l’opera tutta di Leonardo Sciascia». (...)