I giudici amministrativi forniscono un buon punto di vista sull’avvocatura, anche quando mostrano le incomprensioni su ciò che è davvero la professione. Così per l’equo compenso. Sul punto, il quadro normativo è come un “puzzle”. Però, senza farla troppo lunga, le norme di base contengono un’affermazione importante: la pubblica amministrazione “garantisce il principio dell’equo compenso” nel rapporto con la generalità dei professionisti. E, per gli avvocati, l’equo compenso è quello “conforme” ai parametri. Dunque la disciplina dell’equo compenso condiziona ogni incarico. C'è un limite economico inderogabile: e le pubbliche amministrazioni devono rispettarlo, perché su di loro grava per legge l’obbligo di garantire che il corrispettivo riconosciuto al professionista non sia iniquo. Sembra chiaro, ma c’è chi la vede in modo opposto. Come il Tar Lombardia, nella sentenza 1071/2021. Ritiene, il Tar Lombardia, che va bene tutto ciò che è frutto dell’incontro di volontà tra le parti. È il professionista che liberamente si propone per un incarico, e che – per obbligo deontologico – deve rendere una prestazione adeguata: perciò saprà lui quanto può chiedere per poterla fare. Suona bene, ma qualcosa non fila: se è davvero così, a che serve aver introdotto la norma sull’equo compenso? Non cambia mica niente... È una pronuncia che ha avuto ampia diffusione: dunque, benedizione del Tar lombardo sulle gare al massimo ribasso. Comunque la si veda, gli effetti sulla professione sono massicci. Ma il Consiglio di Stato – con la sentenza 7442/2021, appena emessa – non giunge affatto alla stessa conclusione. L’equo compenso è importante: colma uno “scarto negativo” che nel tempo ha provocato una “deminutio di tutela” per le libere professioni. Insomma, sottopagati no. Però, afferma il Consiglio di Stato, gratis va bene. Se una retribuzione c’è, deve essere equa. Ma può non esserci, perché va fatta salva la libertà del professionista di rinunciare a ogni compenso. Se gli basta la soddisfazione “per aver apportato il proprio personale, fattivo e utile contributo alla cosa pubblica”, perché impedirglielo? Anche qui l’argomentazione sembra ragionevole, e anche qui c’è qualcosa che non gira: un po’ come una perdita di contatto con la realtà. Va bene la filantropia. Ma non può essere la regola. Bene cioè se voglio lavorare gratuitamente per una nobile causa. Ma se la pubblica amministrazione usa la gratuità come sistema, strutturando bandi ed elenchi per selezionare i “donatori”, allora non c’entra la scelta filantropica individuale. C’entrano i “vantaggi indiretti” (ai quali pudicamente la sentenza fa cenno). Insomma, se devo mettermi in fila per poter aspirare a un incarico non retribuito, allora sto probabilmente cercando di incrementare il mio curriculum; cioè, sto cercando di poter lavorare. Ma allora la pubblica amministrazione sta approfittando di una situazione dell’avvocatura nella quale davvero si deve essere pronti a qualsiasi cosa per poter accedere al mercato (e magari potrebbe pure mettere all’asta i propri incarichi per cercare chi paghi di più per poterli svolgere …). Ancora peggio, poi, se i “vantaggi indiretti” consistessero nella possibilità di valorizzare la frequentazione con l’ente nei rapporti con i clienti privati: sarebbe un corrispettivo nascosto, ma incidente nell’ambito dei servizi legali. Sul punto, pertanto, concentrarsi solo sulla libertà di scelta del singolo professionista (che certamente esiste) non consente di comprendere la situazione generale. Passando dal giudice al legislatore, è da sperare che quest’ultimo, su questo tema, abbia maggior consapevolezza. Incrociamo le dita, ma il rispetto dell’equo compenso da parte delle amministrazioni non pare venir meno nel testo di legge ora in corso di approvazione parlamentare. È sì prevista l’abrogazione delle norme vigenti, ma non per esonerare le amministrazioni dall’equo compenso, quanto per attrarle in forma più specifica nel novero dei soggetti “forti”. Un nodo c’è, naturalmente: pagare il giusto costa di più che pagare l’ingiusto, o non pagare proprio, ed è un aspetto che deve pur essere considerato. Se poi la nuova disciplina potrà dare indicazioni anche sugli incarichi gratuiti, è da vedere. Sul piano legislativo, le perplessità maggiori sembrano porsi però sugli elementi di fondo dell'avvocatura. Il caso è quello del recente decreto legge 152/2021, che – all’art. 31 – prevede il mantenimento dell’iscrizione negli albi dei professionisti assunti a tempo determinato per l’attuazione del Pnrr. Nessuno dubita della bontà delle intenzioni: il rilancio del Paese grazie appunto al Pnrr. Ma non basta. L'avvocato è un professionista con proprie caratteristiche essenziali: prima di tutto, deve essere indipendente, autonomo, libero da condizionamenti. Sovrapporre iscrizione all’albo e lavoro dipendente è problematico. La questione si salda poi con quelle connesse all'Ufficio del processo. E così si aggiungono le difficoltà di inquadramento di un’attività amministrativa (temporanea?) svolta a contatto con l'esercizio della funzione giurisdizionale. L’Ufficio del processo può probabilmente essere visto, e valutato, da prospettive diverse: sia come modo di miglioramento dell’attività giurisdizionale (è il modo migliore?), sia come “patto intergenerazionale”, per usare le parole del ministro Cartabia. Sarà utile? Forse la risposta può variare a seconda dei punti di vista. Ma certo i numeri sono tali che l’impatto sull’avvocatura non è irrilevante. E dunque è necessario che la politica dimostri una sicura “padronanza dei fondamentali”. Incidere sulle regole di base dell’avvocatura significa infatti incidere sull'effettività del nostro sistema di giustizia. *consigliere Unione nazionale avvocati amministrativisti