Doveva essere una formalità e si è trasformata in una faida. L’elezione del nuovo capogruppo pentastellato al Senato si sta rivelando un incubo per Giuseppe Conte, il presidente M5S che puntava a una tranquilla riconferma dell’uscente Ettore Licheri, uomo di fiducia dell’ex premier. Invece, la conta andata in scena mercoledì scorso ha messo in evidenza una spaccatura netta - 36 preferenze per Licheri e 36 per la sfidante Mariolina Castellone - tra i senatori che nessuno aveva messo in conto.

I guai, semmai, erano preventivati alla Camera, dove Davide Crippa, sponsorizzato da Beppe Grillo, ha già vinto il braccio di ferro con Conte rifiutandosi di dimettersi anzitempo. Il suo mandato scade tecnicamente a dicembre, ma il leader avrebbe preferito un ricambio anche a Montecitorio, in sintonia col “nuovo corso”. La forzatura tentata dall’avvocato ha sortito l’effetto opposto a quello sperato: Crippa si è incatenato alla sua sedia col sostegno di buona parte dei deputati, infastiditi dall’atteggiamento autoritario del nuovo leader e imbufaliti per essere finiti ai margini del Movimento.

Ma se, dicevamo, la “bolgia” della Camera figurava già in cima all’elenco dei cattivi pensieri del presidente, il Senato veniva catalogato alla voce “passeggiata”, vista la prevalenza presunta di esponenti filo contiani. Non che Mariolina Castellone figuri tra gli oppositori del leader, ma non è nemmeno la prescelta del capo. E i senatori scontenti hanno deciso di mandare un segnale inequivocabile a Conte in vista degli appuntamenti più delicati delle prossime settimane: la legge di Bilancio e l’elezione del Capo dello Stato. Perché l’incidente di Palazzo Madama crea imbarazzi inconfessabili a un leader messo in discussione dalla sue stesse truppe. È un segnale di debolezza inviato agli altri partiti, alleati e non, consapevoli una volta di più di avere a che fare con un interlocutore incapace di controllare i Gruppi parlamentari.

Non è un dettaglio da poco alla vigilia delle danze per la successione al Quirinale. Se Conte darà l’impressione di trattare a titolo personale con le altre forze politiche, nessuno farà affidamento cieco sul Movimento 5 Stelle per i calcoli da pallottoliere che servono a scommettere sulla “fumata bianca”. E la voce in capitolo dell’ex premier risulterebbe quasi nulla.

Per il presidente pentastellato è dunque indispensabile archiviare l’incidente del Senato in fretta. L’ipotesi più gettonata per in queste ore per aggirare l’ostacolo è un ticket tra Licheri e Castellone per dare l’immagine di un Gruppo unito e disposto a seppellire le ambizioni personali in nome di un obiettivo comune. O, in alternativa, i vertici 5S valutano l’individuazione di un terzo candidato che obblighi a un passo indietro i due contendenti. Ci sarà tempo fino a martedì per trovare un accordo, visto che i grillini si sono concessi un extratime per uscire dall’impasse. I ribelli sono convinti che la senatrice outsider abbia tutte le carte in regola per battere il capogruppo uscente, visto che alla prossima votazione parteciperanno anche Giulia Lupo e Grazia D’Angelo (assenti giustificate al primo tentativo) schedate come “arruolabili” alla causa Castellone.

Se Conte vorrà avere la meglio dovrà dunque rivedere più di qualche dettaglio nella sua idea di gestione del partito. Gran parte degli eletti, infatti, non ha gradito per nulla le forzature sui nuovi gruppi dirigenti. A partire dalla nomina dei cinque vice presidenti, gli unici autorizzati ad andare in tv da un editto dell’avvocato del popolo. Sembra di essere tornati ai tempi di Grillo e Casaleggio senior, quando le comparsate televisive venivano gestite col contagocce dallo staff e per i trasgressori scattava il cartellino rosso immediato, ma con qualche anno di ritardo e senza l’autorità assoluta riconosciuta dagli allora novellini parlamentari ai due padri fondatori. Perché per tanti eletti Giuseppe Conte resta ancora un corpo estraneo al partito di cui diffidare.

Non solo. Fuori dal cerchio magico, a pochissimi verrà concesso il piacere di un altro giro al termine di questo mandato: vuoi per il taglio dei parlamentari, vuoi per i consensi in picchiata e vuoi perché l’ex premier preferirà circondarsi di persone fidate provenienti dall’esterno (o almeno questo è il timore di parecchi eletti). Un motivo in più, agli occhi degli scontenti, per rendere l’ultimo scorcio impossibile a Conte. Il capogruppo al Senato è solo il primo degli scherzetti che attenderanno il presidente da qui a febbraio.