Pino Pisicchio, trentacinque anni di vita politica alle spalle e ora professore di Diritto pubblico comparato, spiega che «Draghi al Colle è un’ipotesi condivisibile» e in quel caso «la legislatura con ogni probabilità resterebbe in piedi con un governo fotocopia guidato da una personalità in continuità con Draghi». Sull’ipotesi di nuova legge elettorale è netto: «L’istanza maggioritaria che muove alcune forze politiche e che in origine aveva affezionato anche Enrico Letta non può star bene in un Parlamento che per la prima volta si trova a muoversi a ranghi ridottissimi rispetto al passato» e quindi «mettiamo una pietra tombale a questo maggioritario soltanto raccontato».

Professor Pisicchio, partiamo dall’attualità e dal dibattito sul semipresidenzialismo. È corretto affermare che di fatto siamo già in un sistema simile?

Dal punto di vista della sostanzialità, a partire da Oscar Luigi Scalfaro abbiamo avuto nel nostro paese una sorta di semipresidenzialismo all’italiana. Di solito i grandi costituzionalisti fanno riferimento alla figura del presidente della Repubblica come un soggetto che ha un ruolo “a fisarmonica”, che si apre quando c’è bisogno che il presidente intervenga a sostegno della politica nell’interesse della nazionale e si chiude quando la politica è in grado di camminare da sola. Dalla fine della prima Repubblica abbiamo assistito a un disordine creativo della politica, a cui ha fatto riscontro un capo dello Stato sempre più interventista che doveva rimediare all’inadeguatezza della politica. Quindi siamo già, di fatto, all’interno di una sistema che ha più volte chiamato in causa il presidente della Repubblica con un importante ruolo di orientamento.

Ruolo che potrebbe interpretare nel futuro prossimo l’attuale presidente del Consiglio, Mario Draghi?

Da diversi mesi dico che Draghi dovrebbe essere eletto al Quirinale, in quanto figura condivisa da molti, compresa Giorgia Meloni la quale ovviamente pone la condizione dello scioglimento del Parlamento. Draghi al Colle è quindi un’ipotesi condivisibile. Oggi ha un ruolo di garante presso i paesi terzi e la sua reputazione ci ha coperto per quanto riguarda il Pnrr ma potrebbe anche essere quella che, a partire dal 3 febbraio 2022 e per i successivi sette anni, continuerà a coprirci sotto questo punto di vista. Le parole di Giorgetti non sono scandalose né contrastano l’impianto costituzionale, perché di fatto, come dicevo poc’anzi, questo ruolo viene già svolto da tempo.

Nel caso di elezione di Draghi al Quirinale, vede come più probabile lo scenario dello scioglimento delle Camere o quello del prosieguo di questa maggioranza guidata da un presidente del Consiglio vicino all’ex presidente della Bce?

Decisamente il secondo. Non vedo plausibili le elezioni anticipate né lo scioglimento delle Camere. È da tempo che la mia analisi politica si arma di un altro strumento, oltre a quello politologico e costituzionale. Chiamo in causa la psicologia, qualche volta la psicanalisi, in casi estremi la psichiatria. E quindi le chiedo: secondo lei questo è un Parlamento che si può sciogliere avendo gli attuali parlamentari la certezza che al prossimo giro non ci sarebbe posto per molti di loro? Quindi credo che la legislatura con ogni probabilità resterebbe in piedi con un governo fotocopia guidato da una personalità in continuità con Draghi.

Ad esempio il ministro dell’economia Daniele Franco?

Il ministro Franco sarebbe l’indiziato maggiore ma non scarterei l’ipotesi di una donna come prima presidente del Consiglio. Ma con Draghi al Quirinale, ipotesi che ritengo molto probabile e fruttuosa, avremmo un primo ministro di suo gradimento e questa è già una garanzia.

A prescindere da chi sarà il nuovo capo dello Stato, in vista delle Politiche del 2023 si parla di una nuova legge elettorale di stampo proporzionale. C’è il tempo necessario a un accordo o è già troppo tardi?

Non ci sarà alcuna nuova legge elettorale. Resterà il raffazzonamento del Rosatellum, cioè una struttura elettorale che serve nel caso di necessità. Perché l’istanza maggioritaria che muove alcune forze politiche e che in origine aveva affezionato anche Enrico Letta non può star bene in un Parlamento che per la prima volta si trova a muoversi a ranghi ridottissimi rispetto al passato. Avrebbe un effetto maggioritario moltiplicato per cento, lo sbarramento del 3 per cento sarebbe di fatto al 4, al 5, al 6 per cento. Resterebbero in piedi non più di quattro o cinque liste e cinque milioni di voti sarebbero senza rappresentanza.

Dunque, dopo una lunga stagione prevalentemente maggioritaria post referendum Segni, pensa che in futuro si dovrebbe tornare al proporzionale?

Sono convinto che ogni paese abbia una sua vocazione. I paesi che hanno una forte coesione etnica e sociale, preferiscono il maggioritario. In sostanza è quello che succede nei paesi anglosassoni, e d’altronde l’hanno inventato loro. Il proporzionale invece si addice ai paesi in cui questa omogeneità sociologica ed economica non c’è, come l’Italia. Abbiamo usato per anni il maggioritario come fosse il proporzionale e questo è sbagliato. Ricordo con simpatia le riunione con undici segretari di partito a sostegno dell’Ulivo.

Eppure dopo la stagione di Mani Pulite il maggioritario sembrava una manna dal cielo.

Il nostro paese, politicamente parlando, non ha mai dimostrato l’abitudine mentale al maggioritario. Prendiamone atto e mettiamo una pietra tombale a questo maggioritario soltanto raccontato e prendiamo atto del fatto che i sistemi puri, sia proporzionali che maggioritari, nella realtà non esistono, perché esistono meccanismi interni per sporcarli in un verso o nell’altro. Piuttosto che mantenere in piedi una diatriba teorica che credo agli italiani interessi poco ( e dico purtroppo, visto che i sistemi elettorali sono il sale della politica), meglio decidersi una volta per tutte. Ma temo che non accadrà a breve.