La lotteria del Quirinale è sempre aperta alle soluzioni alla vigilia più impensate e il totopresidenti è un gioco di società, inevitabile ma futile. La realtà è che oggi ci sono solo due candidati reali alla presidenza della Repubblica, sia pure con gradi opposti di probabilità, e l'elezione dell'uno o dell'altro avrebbe, per motivi molto diversi tra loro, effetti deflagranti sugli assetti istituzionali della Repubblica: Mario Draghi e Silvio Berlusconi.

La disamina sottile dei diversi motivi e dei calcoli bizantini che portano le varie forze politiche a sostenere o a contrastare una presidenza della Repubblica, in entrambi i casi più sotterraneamente che a viso aperto, spiega poco. Draghi, a differenza di tutti gli altri candidati, non può essere il presidente di una parte corroborata da un partito di quella opposta o collocato al centro. La sua elezione avrebbe senso e peso politico, soprattutto sullo scenario più importante, quello internazionale, solo con un'elezione sul modello di quella di Francesco Cossiga a suo tempo: votato da tutti o quasi nelle prime tre votazioni e meglio se alla prima. In questo caso anche il rischio dei franchi tiratori, con uno schieramento ampio più o meno come l'intero emiciclo, verrebbe ridotto a termini minimissimi.

Solo con un'elezione plebiscitaria l'attuale premier avrebbe l'autorevolezza e la forza per garantire agli occhi dell'Europa la politica economica italiana dal Colle come da palazzo Chigi e alla fine la scelta sarà probabilmente sua. A meno che non intenda seguire la strada di Cincinnato, ipotesi poco probabile non tanto per le eventuali legittime ambizioni dell'uomo ma perché la doppia sfida che ha lanciato in Italia e in Europa non è di quelle fulminee, Draghi ha di fronte due possibilità: insediarsi al Quirinale e di lì sorvegliare sulla carta ma di fatto dirigere la politica economica italiana, oppure puntare su un rinnovo del mandato a palazzo Chigi anche dopo le prossime elezioni. Quest'ultima strada, però verrebbe spianata solo da un sistema elettorale proporzionale, senza il quale le cose diventerebbero molto più incerte e difficili.

Se Draghi deciderà per il Quirinale, nessuno gli si opporrà. La condizione però sarebbe la sopravvivenza comunque della legislatura, non solo perché altrimenti molti parlamentari pur di salvarsi il posto sarebbero tentati dal cecchinaggio ma soprattutto perché lo stesso Draghi non correrebbe il rischio di elezioni al buio con il Pnrr non ancora davvero avviato. Sarebbe un governo fotocopia di quello esistente, con alla guida una figura indicata dallo stesso Draghi e che a lui farebbe di fatto capo. La sterzata verso un presidenzialismo di fatto ma dopo poco anche di nome sarebbe brusca, probabilmente irreversibile.

Il secondo vero candidato in campo presenta caratteristiche diametralmente opposte. Non potrebbe mai essere un presidente di tutti, non ha nessuna possibilità di essere eletto prima della quarta votazione. Sarebbe un presidente di parte per eccellenza, anche se pur senza poterlo confessare l'ipotesi non dispiacerebbe poi troppo allo stesso Pd. La strada del Cavaliere è tanto impervia e accidentata quanto sarebbe quasi sgombra di ostacoli quella dell'attuale premier ove decidesse di cambiare palazzo, residenza e ruolo. Per farcela avrebbe bisogno del voto compatto di tutta la destra, dell'appoggio di Renzi, e di una campagna acquisti tale non solo da garantirgli i voti mancanti ma anche da compensare gli eventuali franchi tiratori all'interno della coalizione che lo sostiene. Sono tutte e tre condizioni difficilmente realizzabili ma non impossibili.

Non bisogna farsi ingannare dall'apparente quiete di questi ultimi anni, nei quali sull'ex reprobo numero uno sono piovuti complimenti e riconoscimenti di salvifica moderazione antipopulista e antisovranista. La sua eventuale ascesa alla prima carica dello Stato riattizzerebbe subito tutte le polemiche, le divisioni, le lacerazioni, la grossolane esagerazioni che erano pane quotidiano nei due decenni che hanno visto Berlusconi perno della politica italiana.

Una presidenza divisiva e lacerante anche a prescindere dalle mosse dell'eventuale neopresidente, che sarebbero probabilmente inappuntabili. La massima carica dello Stato affidata a un leader che per anni ha separato il Paese in due squadre, gli adoratori e gli odiatori, a un uomo in età ormai avanzata e a un pregiudicato avrebbe un effetto terremotante di per sé, senza alcun bisogno di impugnare il piccone di cossighiana memoria. Così la vera domanda da porsi non è chi sarà il prossimo presidente della Repubblica ma di quale Repubblica sarà il primo cittadino.