«Il trattamento andava ben oltre le tecniche di interrogatorio avanzate, si avvicinava alla tortura eseguita dai regimi più violenti della storia moderna. Questo abuso non ha avuto alcun valore pratico in termini di intelligence o di qualsiasi altro beneficio tangibile per gli interessi degli Stati Uniti, invece è una macchia sulla fibra morale dell'America; il trattamento del signor Khan nelle mani del personale statunitense dovrebbe essere fonte di vergogna per il governo degli Stati Uniti». Così recita la lettera inviata da sette giudici militari statunitensi alle proprie massime autorità dopo che venerdì scorso hanno emesso una condanna a 26 anni di carcere ai danni del cittadino pachistano, nato in Arabia Saudita, Majid Khan per il suo sostegno ad al-Qaeda a seguito degli attacchi dell' 11 settembre.

I giudici hanno anche chiesto clemenza non ritenendo l’uomo una minaccia per la sicurezza. Non hanno potuto non tenere conto sulla testimonianza di Khan sui cosiddetti “buchi neri”, le prigioni segrete della Cia nelle quali sono stati torturati molti sospetti terroristi. Una pratica che ufficialmente è stata conclusa nel 2009 da parte del presidente Barack Obama ma che, nelle parole scritte da Khan in un documento di 39 pagine, è emersa in tutto il suo orrore. L’uomo si era già dichiarato colpevole nel febbraio 2012 per accuse che includevano cospirazione, omicidio e fornitura di supporto materiale al terrorismo dopo aver ammesso di aver consegnato 50mila dollari di fondi di al- Qaeda che vennero utilizzati per un attentato mortale all’ hotel Marriott nella capitale dell'Indonesia, Giacarta, nel 2003.

La storia di Khan non è molto dissimile dai racconti di altri terroristi. Arrivato negli Stati Uniti con la sua famiglia quando aveva 16 anni. Si è diplomato al liceo di Baltimora e lavorava per una società di telecomunicazioni quando si sono verificati gli attacchi alle Torri Gemelle. Nel 2002 si è recato in Pakistan, dove ha incontrato diversi membri della sua famiglia pare legati ad Al Qaeda. Lo invitarono a unirsi all'organizzazione terroristica. Sua madre era morta di recente e si sentiva «perso e vulnerabile», ha detto alla giuria. «Sono stato stupido, incredibilmente stupido. Ma hanno promesso di alleviare il mio dolore e purificare i miei peccati. Hanno promesso di riscattarmi e io ci ho creduto».

Le cose però andarono diversamente. Arrestato proprio nel 2003 fu detenuto in una struttura di Karachi dove venivano messe in pratica le “tecniche avanzate di interrogatorio”. In realtà per tre anni andarono on scena dei veri e propri abusi: waterboarding, appeso nudo a una trave del soffitto, affamato e aggredito fisicamente e sessualmente. Il racconto di Khan è stato terrificante.

Quando si rifiutò di bere acqua, gli agenti della CIA gli misero un tubo sul retto. «Hanno collegato un'estremità al rubinetto, hanno messo l'altra nel mio retto e hanno aperto l'acqua», ha detto alla giuria, cosa che gli ha fatto perdere il controllo del suo intestino Quando si rifiutò di mangiare, lo alimentarono a forza con della purea. I tubi di alimentazione sono stati inseriti anche attraverso il naso e la gola. È stato picchiato nudo e incatenato, a volte a un muro e a volte a una trave con le braccia alzate. Lo trattavano «come un cane», e lo tenevano per lunghi periodi nell'oscurità assoluta. Quando è stato trasportato in aereo da una prigione all'altra, gli hanno messo dei pannolini e il nastro adesivo sugli occhi. Secondo la testimonianza, ha confessato tutto ciò che sapeva, ma ha raccontato «più confessavo, più mi torturavano».

Secondo i giudici militari gli abusi non hanno avuto nessun valore pratico per le indagini se non quello di fiaccare il morale dei torturati, una conclusione alla quale era già arrivato un rapporto del Comitato di intelligence del Senato degli Stati Uniti del 2014 che affermava che le tecniche della CIA non solo superavano i limiti legali dell'agenzia, ma erano ampiamente inefficaci. Nel 2006 Khan è stato trasferito a Guantanamo, dove per la prima volta ha potuto finalmente parlare con un avvocato. La permanenza nella prigionea è durata 9 anni senza accuse definite. Non avendo la cittadinanza statunitense, è stato trattato come un ' nemico straniero belligerante senza privilegi', per questo è stato processato da una commissione militare, e ' tecnicamente non gli sono stati concessi i diritti dei cittadini americani'. Tradotto: per essersi dichiarato colpevole e aver mostrato rimorso per il dolore arrecato alle vittime e ai loro familiari, meritava la grazia.