Faceva scalpore la pronuncia della Consulta del 15 aprile u.s. laddove riteneva, in contrasto con l’art. 27 Cost., l’art. 4 bis ordinamento penitenziario, nella parte in cui vieta ai condannati che rifiutino di collaborare con la Giustizia, pur avendo interrotto ogni legame con la criminalità organizzata, di accedere alle misure premiali. La pronuncia giunge sotto spinta della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ravvisava una violazione dell’articolo in commento con l’art. 3 Cedu, ritenendo il trattamento sanzionatorio inumano e degradante. Su questi presupposti è intervenuta la proposta di legge della Fondazione Falcone, la quale auspica di apportare una rapida e costituzionalmente orientata risoluzione al dibattito. La Fondazione propone infatti di estendere la possibilità di accedere alle misure premiali anche per quei condannati che decidano di non collaborare con la Giustizia, previo accertamento di una serie di ulteriori requisiti, quale la rescissione dei legami con i gruppi mafiosi di passata appartenenza. Allora: si può parlare di ravvedimento senza che vi sia stata la collaborazione con la Giustizia? Un cerbero bifronte o due rette parallele? Il ravvedimento, nell’ambito della Legge 26 luglio 1975, n. 354, passa anche tramite una concreta collaborazione con la Giustizia, quale volontà manifesta da parte del condannato in ordine alla collaborazione. A ciò si aggiunga che la contropartita, data dall’impossibilità di accesso a misure premiali in assenza di collaborazione, è stato ed è tutt’ora uno strumento di fondamentale importanza nella lotta alle mafie. Ma non solo. La stessa Corte di Cassazione in una recentissima pronuncia, la n. 38101 del 28 settembre 2021 ha ribadito come, ai fini della concessione delle misure premiali, la sola collaborazione non possa ritenersi elemento di per sé solo sufficiente. Nell’ambito dei reati oggetto di discussione, pertanto, la concessione deve seguire ad una duplice verifica che attesti sia la presenza della collaborazione (anche se impossibile o inefficace, purché sincera e voluta), sia il perseguimento, da parte del condannato, di un percorso di risocializzazione e rieducazione continuativo, concreto e voluto dallo stesso. Ad ogni modo, è evidente per chi scrive che una simile struttura normativa non sia pienamente compatibile con le finalità costituzionali di rieducazione del reo ex art. 27 Cost.. Di qualunque reo! Allo stesso tempo, però, non può evidenziarsi come la tutela dell’Ordine Pubblico dinanzi a fatti di una tale gravità - che hanno scritto una storia di sangue nel nostro Paese - sia un interesse altrettanto meritevole di tutela. Pertanto, come spesso accade, ci si ritrova a dover disquisire sul bilanciamento di due contrapposti interessi costituzionali ed entrambi meritevoli di tutela: (i) da una parte le garanzie del detenuto, (ii) dall’altra l’interesse per la Pubblica Sicurezza. La proposta della Fondazione Falcone appare consapevole delle summenzionate criticità di bilanciamento, anzi, lo afferma la stessa sorella del Procuratore Falcone, Maria Falcone, laddove esprime l’esigenza di recepire quanto osservato dalla Suprema Corte, senza che la lotta alla mafia venga meno. La concessione che viene offerta ai detenuti in regime ex art. 4 bis appare, giustamente, razionata dalla proposta di legge. La modifica maggiormente qualificante, infatti, intende introdurre l’accesso ai benefici anche per quei condannati che non abbiano collaborato con la Giustizia, attesa un’attenta verifica sull’assenza del pericolo di ripristino dei reati per cui sono stati condannati e atteso l’accertamento, da parte del Magistrato di Sorveglianza, di un attuale ravvedimento del detenuto, tramite forme risarcitorie nei confronti delle vittime, e del suo contributo al perseguimento della verità, quale diritto spettante alle vittime. Da una prima lettura, la norma così eventualmente introdotta appare di difficile interpretazione ed applicazione. Tuttavia non è chiaro come possa parlarsi di ravvedimento del condannato che non voglia collaborare con la Giustizia. Si usa volontariamente il termine “voglia”, dal momento che lo status di collaboratore viene riconosciuto anche a quei soggetti che per fatti oggettivi non abbiano “potuto” collaborare, ovvero qualora i frutti della sua collaborazione risultino inefficaci. In secondo luogo, non si comprende come sia possibile conciliare l’assenza della collaborazione al requisito del cd. “contributo” che il condannato dovrebbe offrire al fine di realizzare il diritto alla verità spettante “alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”. Soluzione accettabile potrebbe essere quella di prevedere la possibilità di accedere alle misure premiali anche per quei soggetti irriducibili, che pur non avendo collaborato con la Giustizia, abbiano scontato almeno 26 anni di carcere, come attualmente accade per gli ergastolani che si sono “fregiati” della collaborazione, in ordine alla concessione della liberazione condizionale. Dopo tale lasso di tempo, infatti, non solo è ampiamente più probabile che i vecchi legami con le cosche siano venuti meno e la ricerca forzata del do ut des – collabori, pertanto godi delle misure – risulta assai meno utile ed efficace, dal momento che la collaborazione interverrebbe su fatti assai risalenti nel tempo. La questione appare di delicata risoluzione. Il rischio è quello di adottare soluzioni troppo rapide e poco meditate che “andrebbero ad inserirsi in modo non adeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata” come rileva la Corte stessa nella recente pronuncia del 15 aprile 2021, laddove non ha voluto inserirsi nella questione con la veste del Legislatore, ma ha giustamente ritenuto di rimettere la questione al Parlamento. (*DIRETTORE ISPEG - ISTITUTO PER GLI STUDI POLITICI, ECONOMICI E GIURIDICI)