Per il professor Giovanni Guzzetta, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’università di Roma Tor Vergata, in tema di giustizia sarebbero molte le modifiche costituzionali da portare avanti: dall’organizzazione giurisdizionale all’obbligatorietà dell’azione penale e alla separazione delle carriere. Il problema, dice, è che «per qualsiasi riforma siamo pieni di tabù».

Professore, a voler indicare una scaletta di priorità, quali sarebbero le modifiche costituzionali più urgenti nel campo della giustizia?

Ci sono ragioni per ritenere che la parte della nostra Carta relativa all’organizzazione giurisdizionale vada ritoccata da più punti di vista. Il primo riguarda l’autogoverno della magistratura: rispetto al modello costituzionale vi è stata una evoluzione, sono stati istituiti nuovi organi, come per esempio i Consigli giudiziari, nei quali però la partecipazione di professionalità esterne è molto circoscritta. Tra l’altro è esclusa quando si tratta di valutare la professionalità dei magistrati, a fronte di un Csm che invece è concepito dal Costituente come un organo a composizione mista.

Lei sarebbe d’accordo con il riconoscimento del diritto di voto per gli avvocati e gli accademici nei “mini Csm” di Corte d’appello quando si discute sulle valutazioni di professionalità?

Nel Csm la componente di nomina politica, che include anche gli avvocati, ha diritto di voto. Perché la componente laica non dovrebbe avere lo stesso diritto negli organi il cui lavoro è funzionale alle decisioni del Csm?

Ci sono altre modifiche che andrebbero apportate?

Il tema dell’azione penale è ormai improcrastinabile. Il sistema va avanti con un simulacro di obbligatorietà dell’azione penale. Tuttavia la Costituzione parla di obbligatorietà, ma non indica criteri di selezione delle priorità.

Ci sarebbe anche la questione della separazione delle carriere.

È un tema polarizzante oggi ma, in realtà, in Assemblea costituente non sussistevano dubbi sul fatto che la carriera del pm non potesse essere unificata a quella del giudice. Se non si attuò allora la separazione è solo perché il modello processuale penale era di tipo inquisitorio, l’organo inquirente aveva anche delle funzioni giudicanti. Così si rinviò la separazione alla modifica del processo, che però è arrivata solo nel 1989.

Soprattutto per la magistratura, si tratta di un tabù.

Per qualsiasi riforma siamo pieni di tabù: abbiamo il tabù del bicameralismo intoccabile, quello del governo che non può minimamente essere rafforzato, quello di un regionalismo che non ha un’identità chiara. Purtroppo le riforme costituzionali, soprattutto quando riguardano il governo e l’organizzazione della giustizia, sono tutte assediate dai tabù. Il problema è che se non li si affronta, si realizza il paradosso di una prassi, senza riforme, che invera esattamente lo spettro di quei tabù. Ho già parlato dell’azione penale. Pensi, sul versante del governo, al tema dei decreti legge: da decenni rappresentano sempre di più la fonte principale di legislazione. Mentre nel modello costituzionale sono considerati degli atti eccezionali, ormai la straordinarietà e l’urgenza vengono giustificate con il fatto che altrimenti il processo decisionale è troppo lungo.

Ma così si svuota il ruolo del Parlamento.

Esatto. Anziché riformarlo e rendere le procedure più efficaci e veloci, lo si marginalizza semplicemente. La nemesi dei tabù. Esaltiamo il bicameralismo, combattiamo i rischi di governo autoritario e, poi, proprio nella conversione dei decreti legge, sperimentiamo un monocameralismo di fatto e un governo che impone la questione di fiducia con maxi-emendamento.

Come si affrontano queste criticità? Un tentativo si era fatto con il referendum Renzi-Boschi, ma sappiamo come è andata a finire.

Il problema delle riforme in Italia è che si avvia il processo con grande unanimismo, poi però quando ci si approssima al momento della verità i partiti rinnegano le convergenze e preferiscono giocare una partita politica di competizione con gli avversari, utilizzando la riforma costituzionale come una sorta di strumento di lotta elettorale.

Dato questo contesto, non è allora quasi fisiologico che i cittadini si riapproprino del loro potere di incidere sul cambiamento attraverso le leggi di iniziativa popolare e i referendum che, infatti, stanno vivendo una stagione prolifera, grazie anche alle sottoscrizioni online?

Distinguerei due aspetti. Il primo è quello che riguarda il processo di revisione costituzionale per il quale, secondo me, non si può non passare dal momento rappresentativo, che sia una Commissione costituente o il Parlamento stesso, perché i temi e gli intrecci sono troppo complessi. Altro discorso è quello che concerne i referendum abrogativi, rispetto ai quali la previsione di una disciplina della raccolta delle firme più spedita non presenta alcun problema di legittimità, anche perché non dobbiamo dimenticare che l’Italia è stata condannata dal Comitato diritti umani dell’Onu, grazie ad un ricorso dei radicali, perché ha violato il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica del Paese attraverso i referendum e le leggi di iniziativa popolare. La sottoscrizione digitale è un modo per adeguarsi a questa decisione.

Professore, mi aiuti a capire: da un lato alle ultime Amministrative abbiamo registrato un forte astensionismo, dall’altro però milioni di cittadini hanno firmato per i referendum su eutanasia, cannabis, giustizia. I cittadini sono dunque interessati o no ad incidere sulle decisioni politiche?

Per rispondere dovremmo essere in possesso di dati empirici, sociologici e politologici molto dettagliati. Io credo che la democrazia perda legittimazione nel momento in cui tradisce la propria promessa, ossia che i cittadini contino e incidano sui processi. Quando i cittadini non contano o hanno la percezione di non contare, allora l’afflato democratico si indebolisce. Probabilmente su un tema specifico come un referendum, in cui si potrebbe arrivare ad un voto, i cittadini interessati si sentono più coinvolti. Diverso è quando invece parliamo della politica nazionale, con un sistema che funziona male ed è caratterizzato da una fortissima instabilità che tradisce le scelte elettorali. Se guardiamo solo a questa legislatura, i primi due governi che ci sono stati hanno assunto una composizione che ha tradito l’impegno elettorale dei partiti che ne facevano parte. La politica locale risente di questo clima.

Lei ha detto giustamente che i cittadini vogliono incidere. Ma il nostro Paese soffre di analfabetismo funzionale, ci sono minoranze per cui la terra è piatta. Queste persone votano. Non sarebbe il caso di rivedere il modello di voto?

L’idea democratica parte dal presupposto che abbiano diritto di voto tutti, indipendentemente dal tipo di preparazione. Non dimentichiamo che una grandissima parte di cittadini che votò il referendum Monarchia/Repubblica e la Costituente era analfabeta. Questo non vuol dire che non ci sia un problema di dibattito pubblico e di consapevolezza. Ma non si risolve tagliando fuori parte della popolazione, altrimenti si entra in un altro regime, oligarchico o dei migliori. Si risolve con strumenti che consentano lo svolgimento del dibattito pubblico nel modo più trasparente possibile. Il problema dell’ignoranza non è solo dei rappresentati ma anche dei rappresentanti, e non è un problema solo italiano. Negli Stati Uniti si riflette molto su questo tema. Siamo poi in un’epoca in cui le fonti di informazione si moltiplicano senza che questo assicuri necessariamente maggior consapevolezza.