La Consulta respinge le censure sollevate dalla Cassazione. Non è incostituzionale che un internato, ovvero colui che ha finito di scontare la pena ma è raggiunto da una misura di sicurezza, vada in 41 bis. Sì, ma a una condizione: il trattamento differenziale previsto dal carcere duro deve adattarsi alla condizione dell’internato e consentirgli di svolgere effettivamente un’attività lavorativa. In sostanza è questa l’interpretazione posta a base della sentenza n. 197 depositata ieri (redattore Nicolò Zanon) con cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate («nei sensi di cui in motivazione») le censure sollevate dalla Corte di cassazione sul 41 bis dell’ordinamento penitenziario. La Corte ha quindi rigettato tutte le censure, a condizione che del 41 bis, in quanto riferito agli internati, sia data una lettura costituzionalmente conforme.

Si legge nella sentenza che, in conformità agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dev’essere prescelta un’interpretazione dell’articolo 41 bis che consenta l’applicazione agli internati delle sole restrizioni proporzionate e congrue alla condizione del soggetto cui il regime differenziale si riferisce: «Trattandosi di un internato assegnato a una casa di lavoro, le restrizioni derivanti dalla sua soggezione all’articolo 41 bis ordinamento penitenziario devono adattarsi, nei limiti del possibile, alla necessità di organizzare un programma di lavoro, e, a sua volta, l’organizzazione del lavoro deve adattarsi alle restrizioni ( quelle necessarie) della socialità e della possibilità di movimento nella struttura. Ad esempio, devono essere identificate attività compatibili con gli spazi di socialità e mobilità a disposizione degli internati soggetti al regime differenziale, modulando opportunamente l’applicazione della limitazione della permanenza all’aperto disposta dalla lettera f) del comma 2- quater del citato articolo 41 bis».

Gli internati in regime differenziale restano esclusi dall’accesso a semilibertà e licenze sperimentali, non potendo uscire dalla struttura in cui sono collocati, ma, quanto alla socialità e ai movimenti intra moenia, deve essere loro garantita la possibilità di lavorare. Il Dubbio ha dato notizia della Cassazione quando ha sollevato la questione di legittimità costituzionale in merito all’applicazione del 41 bis agli internati.

La prima sezione della Corte suprema, l’anno scorso, ha accolto il ricorso presentato dagli avvocati Valerio Vianello Accorretti del Foro di Roma e Piera Farina del Foro de L’Aquila. Lo hanno fatto nell’interesse di un internato presso il carcere di Tolmezzo ( dove c’è la casa lavoro) che, finito di scontare la pena al 41 bis nel 2016, è stato raggiunto da una misura di sicurezza e, di fatto, ha continuato a rimanere recluso sempre con l’applicazione del carcere duro. Ciò vanifica qualsiasi obiettivo che si dovrebbe raggiungere con la casa di lavoro. Misura di sicurezza, questa, che prevede lo svolgimento di attività lavorative, ma – come hanno scritto i legali nel ricorso – «essendo in 41 bis non possono trovare alcuno spazio, in quanto il detenuto – come previsto con precisione dall’ordinamento penitenziario – è costretto a restare chiuso nella camera detentiva per 21 o 22 ore al giorno».

Nel ricorso accolto dalla Cassazione, i legali Vianello e Farina sottolineano che un internato al 41 bis è penalizzato rispetto ad altri perché gli sono precluse alcune specifiche licenze contemplate dall’articolo 53 dell’ordinamento penitenziario, perché parte del percorso trattamentale per gli internati, volte a consentire – recita la sentenza della Cassazione del 1986 – «sia pur sporadiche occasioni di primo contatto con l’ambiente esterno». Ogni qual volta che sono state richieste, l’Ufficio di Sorveglianza le ha rigettate in virtù del 41 bis.

Secondo la Cassazione, l’articolo consente l’applicazione del medesimo regime sia ai condannati a pena detentiva sia agli internati. Ciò comporta una doppia pena, violando vari principi costituzionali, da quello di ragionevolezza a quello di proporzionalità e colpevolezza. Per la Consulta, però, l’applicazione del 41 bis è legittima. Gli internati restano esclusi dall’accesso alla semilibertà e alle licenze sperimentali, non potendo uscire dalla struttura in cui sono collocati, ma, quanto alla socialità e ai movimenti intra moenia, deve essere loro garantita la possibilità di lavorare. Sulla carta è già così. Nella pratica, come si evince dal ricorso dell’internato a Tolmezzo, ciò non avviene.