Un po’ per il suo tono abitualmente misurato, un po’ per il volume troppo alto di una campagna elettorale peraltro anomala come quella sui ballottaggi comunali, che non a caso ha provocato un aumento ulteriore dell’astensionismo, cioè di fuga dalle urne, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato penalizzato nell’ultimo intervento compiuto, venerdì scorso, sui magistrati.

Di cui si è occupato, in particolare, in una lettera al presidente della loro associazione, Giuseppe Santalucia, di apparente compiacimento per la nuova veste di una rivista che il capo dello Stato ha voluto definire “commentario”. Scrivo di apparente compiacimento perché Sergio Mattarella ha voluto cogliere l’occasione per richiamare sia l’associazione, comunemente chiamato sindacato, sia le toghe ad una condotta migliore. Egli insomma, pur nel suo stile non certamente paragonabile al piccone della buonanima di Francesco Cossiga, l’amico e collega di partito che lo precedette al Quirinale dal 1985 al 1992, ha voluto mettere o rimettere certe cose al loro posto.

Dall’associazione dei magistrati, per esempio, vista la natura particolare di chi vi partecipa, che non è un comune dipendente dello Stato, il presidente della Repubblica e - non dimentichiamolo - del Consiglio Superiore della Magistratura, non si aspetta tanto una tradizionale attività sindacale, per sollevare e risolvere vertenze normative e retributive, o la coltivazione di un “corporativismo autoreferenziale”, quanto la promozione e la gestione - ha scritto- di un “dialogo autentico della Magistratura ordinaria con le istituzioni e con la società”.

Per il rispetto delle istituzioni - mi permetto di interpretare la lettera di Mattarella- l’associazione dei magistrati si sarebbe dovuta tenere rigorosamente estranea alle polemiche che hanno accompagnato il lungo e neppure concluso processo sulla cosiddetta e presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi. E non mettersi a difendere pregiudizialmente, com’è avvenuto più volte in modo diretto o indiretto, un’accusa tanto ostinata quanto clamorosamente smentita sino alla Cassazione, come nel caso dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino. Che sarebbe stato addirittura il promotore di quella trattativa per salvarsi dalla minaccia mafiosa di morte pendente sulla sua persona. Per il rispetto della società - mi permetto sempre di interpretare la lettera di Mattarella- l’associazione nazionale dei magistrati avrebbe dovuto essere la prima a insorgere contro un presidente di sezione della Cassazione, e temporaneamente consigliere superiore della magistratura, che si era permesso in uno dei salotti televisivi abitualmente frequentati di liquidare un imputato assolto per uno che l’aveva semplicemente fatta franca. O no? Ora quel magistrato, nel frattempo andato in pensione e decaduto dal Consiglio Superiore, è indagato per violazione del segreto d’ufficio - e perciò innocente, per carità, sino a condanna definitiva- ma avrebbe dovuto già incorrere in una presa di distanza dei suoi colleghi da quella battutaccia televisiva, a dir poco. O no? Per molto meno noi giornalisti rischiamo denunce e querele, che da sole costituiscono un ostacolo all’esercizio della nostra professione.

Dei magistrati il presidente della Repubblica ha giustamente ricordato e difeso “l’indipendenza” - si legge nella sua lettera- come “un elemento cardine della nostra società democratica”, ma che “si fonda - ha ricordato sull’alto livello di preparazione professionale, accompagnata della trasparenza delle condotte personali e dalla comprensibilità dell’azione giudiziaria”. Mi chiedo, a proposito del processo già ricordato sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, se abbia risposto ai requisiti indicati da Mattarella l’iniziativa della Procura generale che per sostenere in appello la conferma della condanna in primo grado di un grappolo di imputati ha presentato un documento di contestazione di una sentenza contraria e definitiva della Cassazione a favore di un imputato di quegli stessi reati giudicato però col rito abbreviato.

Dolce o amaro in fondo, come preferite, Mattarella ha scritto nella sua lettera diffusa dal Quirinale che “per assicurare la credibilità della Magistratura riconosciuta da tutti i cittadini” occorre “un profondo processo riformatore ed anche una rigenerazione etica e culturale”. Ripeto: una rigenerazione etica e culturale, non bastando evidentemente l’attuale livello né etico né morale anche in riferimento alla vicenda Palamara delle carriere e dintorni. Questo richiamo di Mattarella fa un po’ il paio con quello del compianto Sandro Pertini ad una indipendenza e imparzialità della magistratura chiaramente riconoscibile, perché non basta essere ma bisogna anche apparire indipendenti e imparziali nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, disse quello che rimane - credo, al di là del suo leggendario cattivo carattere- il presidente della Repubblica più amato dagli italiani.

Peccato che Pertini sia morto e che Mattarella stia per concludere il suo mandato fra il sollievo di tanti, direi troppi, che non si lasciano scappare occasione per ricordarne con malcelato sollievo l’indisponibilità, sinora, ad una conferma almeno per il tempo necessario a garantire che all’elezione del successore provveda un Parlamento un po’ più legittimato di quello che scadrà nel 2023. E verrà sostituito da Camere ridotte di un terzo abbondante dei seggi, profondamente modificato di certo anche nei rapporti di forza fra i partiti che sono rappresentati in quelle attuali.