di LUCA ANDREA BREZIGAR E GIUSEPPE BELCASTRO*

Avevamo immaginato che le nostre osservazioni sul caso Fanpage e Fratelli d’Italia avrebbero suscitato un dibattito; anzi, da penalisti dell’Unione, auspicavamo che accadesse. È il sale della politica giudiziaria, oltre che il modo per veicolare la nostra, che è cultura di minoranza e che, specie in un caso così, rischia ad ogni virgola di farti passare per simpatizzante di una forza politica o peggio, per nemico della libertà di stampa.

E il Dubbio ci offre la prima buona occasione per rilanciare le nostre convinzioni e costruire un dialogo alla vigilia del voto sullo schema di legge a salvaguardia della presunzione di innocenza. È da queste colonne, infatti, che, alcuni giorni addietro, si è intonata una interessante difesa del giornalismo d’inchiesta, come professione diversa dal comune giornalismo giudiziario e come vera espressione della libertà di stampa. Una difesa che ci ha fatto riflettere, ma non ci ha convinto né con i riferimenti al giornalismo investigativo dei famosi “pistaroli” nostrani ( giornalisti d’inchiesta che seguirono gli avvenimenti da piazza Fontana in avanti) né con gli accostamenti al celeberrimo caso Watergate.

Non è, crediamo, una professione diversa, ma un modo diverso di esercitare la professione e, in quanto tale, non va esente dagli stessi limiti del comune codice deontologico, imperniato su rispetto delle fonti e controllo della loro attendibilità.

Il compito del giornalista investigativo è quello di scoprire la verità e identificare gli scostamenti da essa partendo da un fatto già accaduto, non certo di creare o stimolare l’accadimento per poterlo in conseguenza investigare.

Per stare all’esempio, il Watergate fu innescato dalla scoperta di alcune intercettazioni illegali effettuate nel quartier generale del Comitato nazionale democratico, e l’inchiesta giornalistica promossa da Bob Woodward e Carl Bernstein suscitò la crescente attenzione per un fatto che, da modesto reato di personaggi secondari, coinvolse gli uomini di Nixon e ne determinò l’impeachment.

E neppure i nostri coraggiosi “pistaroli”, che si sperticarono per divulgare notizie avvolte da misteri di Stato, mistificarono le proprie generalità per infiltrarsi in qualche tessuto sociale, con l’idea di fare l’agente provocatore sino ad apprendere una notizia che potesse essere di interesse pubblico.

Nell’operazione di Fanpage, ci sembra, rivive invece il caso che, un paio di anni fa, fu oggetto di un bel commento del Professor Pulitanò. Era una indagine giudiziaria a carico di alcuni giornalisti che, a fine divulgativo, sotto mentite spoglie avevano agito quali istigatori di fatti di corruzione; un caso capace di riaprire la discussione sui metodi di contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione, con specifico riguardo alla figura dell’agente provocatore.

Rimarcò, quell’autorevole commentatore, le nitide differenze tra l’agente sotto copertura e l’agente provocatore, rapportandole al tema della genuinità di una prova così raccolta nella proiezione tanto della libertà di autodeterminazione della persona ( artt. 188 e 189 c. p. p.), quanto, più in generale, del rispetto dei principi del giusto processo sanciti dall’art. 111 Cost.

Per farla breve, noi pensiamo che il nostro ordinamento concepisca la sanzione penale come risposta ad un fatto commesso in piena autonomia, cosicché non vi sia spazio per tecniche tese a ‘ saggiare’ e a punire l’attitudine a delinquere del cittadino perché solo così sarebbero pienamente rispettati i principi di offensività del fatto e colpevolezza dell’agente imposti dalla Costituzione.

Del resto, fino a un attimo prima dell’arresto della Suprema Corte – che pure abbiamo segnalato – per molto tempo, gli operatori del diritto, nazionali e internazionali hanno convenuto sulla incompatibilità, del metodo di indagine che istiga alla corruzione per combatterla, con il nostro sistema di norme e valori dello Stato democratico.

La scriminante disegnata dalla Corte, allora, rischia di diventare parte del movente di chi commette un illecito, piuttosto che la circostanza che quell’illecito scusa. Vorremmo infine rassicurare chi teme e scioglierne le perplessità: nessuno di noi ha pensato nemmeno per un attimo di mettere il bavaglio alla stampa o di invocare sanzioni penali restrittive della libertà personale e neppur pensa che le infiltrazioni estremiste e fasciste all’interno di un partito politico non siano notizie di interesse pubblico.

Non è questo il punto. Noi crediamo che, nella cartina al tornasole del giusto processo, sulla quale la presunzione di innocenza gioca un ruolo dirimente, attività come l’inchiesta promossa da Fanpage siano distoniche.

E se il nostro Codice penale permette che la violazione del segreto istruttorio da parte di una qualsiasi testata giornalistica venga estinta con un’ottantina di euro, indicare la possibilità di una sanzione pecuniaria più robusta, magari anche amministrativa, non ci sembra affatto un’idea stupefacente solo perché proviene da un Osservatorio dell’Unione delle Camere Penali Italiane.

È un’idea coerente con le battaglie che facciamo da anni per salvare la genuinità della prova, la verginità cognitiva del giudice, la presunzione di innocenza e, soprattutto, la dignità dei cittadini spesso travolti, al di là di ogni ragionevole dubbio, da titoli e conferenze stampa che, oggi, sono peggio delle sentenze sommarie. E, a proposito di questa battaglia, non siamo per fortuna soli a combatterla: il nostro incondizionato apprezzamento e il nostro plauso vanno a tutti i soggetti politici che, proprio in queste ore, si battono ventre a terra perché la direttiva europea sulla presunzione di innocenza diventi finalmente legge dello Stato.

* Responsabili Osservatorio UCPI sull’informazione giudiziaria