La vecchia baraccopoli, quella dei migranti arsi vivi e delle tensioni razziali sempre sul punto di esplodere, era stata abbattuta in favore di telecamera dall’ex ministro Salvini nel 2019: migliaia di lavoratori africani furono fatti sgombrare da quel ghetto allestito in via provvisoria dopo la rivolta del 2010 e cresciuto a dismisura negli anni. Qualcuno di essi trovò rifugio in una nuova tendopoli costruita poco più in là, allestita con le tende blu del ministero dell’Interno. Nell’idea iniziale doveva essere una soluzione temporanea e ora, a distanza di 3 anni dalla sua inaugurazione e dopo avere attraversato un lungo periodo in zona rossa che ha portato all’esplosione di una protesta dai tratti piuttosto violenti, la “nuova” tendopoli sta riproponendo le stesse drammatiche dinamiche del campo che l’ha preceduta. Ufficialmente in via di smantellamento dall’agosto dello scorso anno, il ghetto di San Ferdinando ( Rc) accoglie attualmente 250 residenti di 17 nazionalità diverse, ma i numeri sono destinati a salire vertiginosamente nelle prossime settimane, quando nella Piana di Rosarno si riverseranno gli stagionali per la raccolta dei kiwi e delle clementine. Un esercito di lavoratori migranti, tutti o quasi con i documenti in regola, che andranno a rimpolpare la popolazione del campo.

TERRA DI NESSUNO

Da quando il sindaco del piccolo centro tirrenico Andrea Tripodi ha alzato bandiera bianca, rinunciando a indire nuovi bandi per la gestione del campo sorto nella desolazione della zona industriale e “invitando” i residenti ad abbandonare il sito, la tendopoli è diventata terra di nessuno e, di fatto, si autogestisce con tutti i problemi che una simile situazione comporta. Un vero e proprio paradosso visto che comunque, pur essendo ufficialmente in via di smantellamento e pur non ricevendo più i servizi essenziali, la tendopoli continua ad essere accettata come residenza nei documenti ufficiali dei migranti che tra quelle tende, loro malgrado, ci vivono. Finiti i progetti veicolati attraverso il Comune – e quindi i soldi legati ai progetti – si sono interrotti tutti i servizi essenziali per i residenti: nessuno si occupa di censire i nuovi arrivi e di cancellare i migranti che hanno abbandonato il loro posto inseguendo il lavoro stagionale, nessuno si occupa più della manutenzione della struttura, né della raccolta dei rifiuti o del servizio mensa, che è rimasto, tre volte la settimana ma per i pasti caldi toccherà aspettare l’inverno, sulle sole spalle della Caritas. Ci sono i medici di Emergency e quelli di Medu che operano tra le tende, ci sono i sindacalisti della Cgil da anni in trincea nella lotta al caporalato, e poi ci sono i volontari di don Cecè Alampi, il diacono francescano da anni in prima linea per il superamento delle varie baraccopoli presenti sul territorio. Il resto è un disastro di disorganizzazione massima e povertà assoluta che ha generato una sorta di non luogo dove i diritti umani sono sospesi. Una bidonville, l’ennesima in questo pezzo di Calabria dopo i capannoni dismessi della Rognetta e gli orrori della prima baraccopoli, che cresce disordinatamente di giorno in giorno. Nuove baracche di legno e cartone vengono allestite in ogni pezzo di campo disponibile ma è facile prevedere che altre ne sorgeranno anche oltre i confini del campo originale, nell’ennesima replica di un disastro che si ripete uguale da più di un decennio. Anche il presidio fisso della polizia è stato smantellato e sostituito con un servizio di ronde.

IL NUOVO GHETTO

Oltre l’ingresso ( che una volta, grazie ai badge consentiva agli operatori di controllare le presenze e che è finito distrutto dalla rivolta esplosa durante la pandemia), e superata la montagna di immondizia che nessuno raccoglie da tempo, le tende con il logo del ministero appaiono logore, più di una mostra i segni del tempo e dell’usura, altre sono state riadattate per creare rifugi più grandi. E accanto alle tende, le nuove baracche di legno e lamiera in via di allestimento che accoglieranno gli stagionali. I più attrezzati stendono file di tappeti per garantire un minimo di isolamento termico, altri si arrangeranno con il cartone. Dell’impianto originario che garantiva alle tende luce e riscaldamento è rimasto pochissimo, tra molte centraline saltate a mai rimesse a posto e altre cannibalizzate dagli allacci abusivi che causano continui blackout e aumentano esponenzialmente la rabbia e il rischio incendi. Anche l’acqua è un problema molto serio, soprattutto adesso che le temperature sono calate drasticamente. Quella calda è un ricordo lontano e i container che ospitavano i servizi hanno smesso di funzionare da tempo. E così, tra le baracche di nuova costruzione, ne è spuntata una in cui lavora Keità, un ragazzone di origine senegalese che passa tutto il giorno a tenere vivo il fuoco sotto i bidoni colmi d’acqua messa a scaldarsi. La vende 50 centesimi a secchio: tanto costa la dignità umana nella favelas di San Ferdinando. I lavoratori migranti usano quell’acqua per lavarsi dopo i turni nei campi: «Ma anche il ragazzo che vende l’acqua calda è un disperato – racconta don Cecè Alampi che coordina i volontari Caritas, i più presenti nel campo anche ora che i soldi sono finiti – uno schiavo costretto a guardare il fuoco tutto il giorno e a ingegnarsi per procurarsi l’acqua e la legna. La verità è che qui abbiamo perso tutti e il risultato di questa sconfitta lo pagano gli ultimi, come sempre. Bisogna superare il sistema delle tendopoli, basterebbe poco. Con la collaborazione di un’agenzia di Milano siamo riusciti ad ottenere un fondo di garanzia di 5 mila euro: lo mettiamo a disposizione per tranquillizzare i proprietari di casa e consentire ai migranti di ottenere un affitto. Con questo metodo abbiamo già affittato quattro appartamenti a ex residenti del campo e nemmeno un soldo del fondo di garanzia è stato toccato. È un piccolo successo ma è una goccia nel mare».