«Era difficile ogni giorno alzarsi e sentirsi un colpevole senza processo. Un presunto colpevole invece che un presunto innocente. Sa come mi sono sentito? Come se mi avessero destituito della mia stessa anima». A cinque giorni dalla sua assoluzione Michael Giffoni, ex ambasciatore italiano a Pristina, ha già la voce più serena. Per lui è la fine di un incubo, anche se la strada per la riabilitazione manca ancora di un pezzo: rientrare al ministero degli Esteri che lo ha cacciato prima ancora che qualcuno decidesse se fosse colpevole e innocente. Tutto è accaduto nel 2014, quando Giffoni, mente raffinatissima e con un curriculum da fare impallidire chiunque, è stato destituito dall’incarico e addirittura radiato dalla diplomazia italiana sulla base di accuse dalle quali, sette anni dopo, è stato scagionato con formula piena: di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a delinquere. Tutto questo, sette anni dopo, è svanito nel nulla. Ma la sua carriera è ormai distrutta.

Ambasciatore, come ci è finito in questa situazione?

È una vicenda complessa e ingarbugliata dal punto di vista giuridico e dolorosa dal punto di vista umano. Non mi sento una vittima della malagiustizia, perché la giustizia mi ha salvato. Lo sono se consideriamo i tempi, perché l’iter è stato lunghissimo, ma è stato grazie ad un tribunale se ho avuto questa liberazione. La cosa peggiore, però, è che le accuse sono state alla base della mia destituzione, provvedimento amministrativo sanzionatorio a dir poco estremo. Da quel momento si è sviluppato un incredibile corto circuito tra legge, procedure disciplinari, procedure giuridico-amministrative e processo penale. Il tutto ha creato, alla fine, una situazione difficile da sbrogliare.

Il tribunale più duro è stato quello interno al ministero degli Esteri?

Essere destituiti per un funzionario dello Stato, almeno per quello che io sono e sono sempre stato, ha significato la destituzione della mia stessa anima, del mio modo di essere, della mia dimensione umana. Questo sulla base non di accuse accertate e attestate da chi ha la competenza giurisdizionale per farlo, ma da una commissione disciplinare interna al ministero. È molto difficile da accettare: per quanto legalmente ortodossa, dal punto di vista umano e civile è molto grave, perché la Costituzione prevede il principio di presunzione di innocenza. E io avrei dovuto essere considerato innocente fino a prova contraria. Ma questo vige solo sulla carta, perché per sette anni e mezzo sono stato privato di tutto, della mia stessa essenza, sulla base di accuse mai provate. Un presunto colpevole. Una cosa difficile da accettare in uno Stato diritto, perché questo contraddice in pieno i principi dello stesso.

È stato audito dalla commissione?

Sì, ho spiegato le mie ragioni fin dall’inizio e fin dall’inizio ho fatto presente che quelle accuse si basavano su voci e pregiudizi. Non c’era nessuna prova, ma il ministero ha deciso comunque di sanzionarmi. Il Tar del Lazio mi ha dato ragione ben due volte, proprio sulla base della presunzione di innocenza, evidenziando che le accuse non erano mai state accertate e che il ministero non poteva intestarsi una funzione che non aveva, in quanto organo del potere esecutivo e non di quello giudiziario. Quindi avevano ordinato la mia riammissione in servizio, in attesa di un processo . Il Consiglio di Stato, però, ha ribaltato il ragionamento, dando ragione al ministero che aveva valutato l’esistenza di un danno ingente allo Stato. Bene, questo danno, come la sentenza ha dimostrato, in realtà non c’è mai stato. Penso che questo capovolgimento sia alquanto bizzarro.

Come sono stati questi sette anni?

Non voglio star qui a rimuginare: questi sette anni sono andati. La sentenza mi ha ridato la dignità civile e morale, ha ristabilito la verità, mi ha fatto giustizia. Certo, ci si poteva mettere di meno. Però quello che ora esigo è semplicemente una cosa: che mi venga restituita anche la dignità professionale, che per me era una missione di vita. È come se avessero scomunicato un sacerdote, sulla base di accuse infondate. Essendo venuti meno i fondamenti di quei provvedimenti che avevano giustificato sanzioni così estreme, penso che sia un’aspettativa legittima e fondata quella di tornare a lavorare al ministero degli Esteri.

Qualcuno le ha chiesto scusa?

Figuriamoci. Non c’è stato finora nessun contatto. Lo so che probabilmente non è la fine, ma per me in ogni caso è un nuovo inizio, perché finalmente sono sereno. Prima non potevo esserlo. Sono finalmente sereno da lunedì 27 settembre 2021 alle ore 13.45. Spero che da parte dell’amministrazione prevalga il buon senso e che si prenda atto che la sentenza è inequivocabile. La conseguenza immediata dovrebbe essere la mia riabilitazione.

Quindi non ha perso totalmente la fiducia nelle istituzioni?

Io sono un funzionario dello Stato e lo sono nell’anima, lo sono stato anche in questi sette anni. In molti mi hanno invitato a portare la mia storia nei salotti tv, ma io non sputo nel piatto in cui ho mangiato, non porto lo Stato, nonostante mi abbia riservato questo trattamento, sul palco degli accusati. Ma ora sì. Ora ho una sentenza. Ora io dico che le conseguenze di questa sentenza se le devono assumere le istituzioni, perché la riabilitazione professionale che voglio io non me la può ridare un tribunale, me la deve dare chi mi ha cacciato.

Lei ha firmato i referendum promossi dal Partito Radicale. Per quale ragione?

Non perché vada di moda o perché si tratta di temi legati alla giustizia, ma perché ho letto le proposte e le ho trovate sensate e ho pensato che potesse essere un modo per iniziare a migliorare la situazione. La mia è stata una vicenda grave, fatta di sofferenze, ma se la paragoniamo a tante situazioni estreme mi è andata anche bene: c’è gente che ha fatto anni di carcere prima di essere assolto. E mi sembra che queste proposte possano alleviare, almeno, quelli che sono i problemi principali.

Secondo lei cosa non funziona?

In primo la presunzione d’innocenza, che deve esistere nei fatti e non solo sulla carta. Deve tornare ad essere un principio fondamentale. Poi il processo deve finalmente uscire dalla natura inquisitoria nel quale ancora, nonostante tutto, si trova. Deve basarsi sulle garanzie e sulle tutele degli imputati, che non possono essere condannati prima ancora che sia emessa la sentenza. E poi c’è il problema dei tempi: nel mio caso è stato un iter micidiale. Tecnicamente si deve trovare una soluzione e non penso che sia solamente un problema di organico, ma anche un problema di mentalità.

Anche la sua vita personale ha subito dei duri colpi.

Abbiamo tutelato soprattutto gli interessi del bambino, che è cresciuto bene e sono contento di essere riuscito a spiegare tante cose ad un ragazzo che all’epoca aveva 5 anni e quindi è cresciuto con questo dramma. Poi il matrimonio è un’altra storia: è nato sotto l’assedio a Sarajevo e sono stati 20 anni bellissimi. Ma lasciamo perdere: la fine della storia è frutto di un momento difficile. Era difficile starmi vicino, perché mi sono ritrovato sbalzato in una situazione completamente diversa, che era l’annullamento di tutta la mia vita. Le sofferenze però sono state immani, anche fisiche. Non sto a dire che le malattie dipendono solo da quello, ma in gran parte sì: prima ero sano come un pesce e poi improvvisamente ho avuto problemi cardiologici, endocrinologici, istologici… Qualche cosa ci deve essere stato. Poi ho avuto sofferenze materiali, perché non essendoci più entrate sono finiti i risparmi. Mia madre mi ha aiutato, qualche amico ha messo mano anche al portafogli e non gliene sarò mai grato abbastanza. Queste situazioni le abbiamo superate, ma quello che lascerà strascichi sono le conseguenze morali. Era difficile ogni giorno alzarsi e sentirsi un colpevole senza processo. È stata un’odissea. Ma ci sono state tantissime lezioni ed io non sono così stupido da non coglierle al volo. Nessuno può ripagarmi per questi anni, sono andati. Ma ciò che ho imparato lo metterò a frutto e sono sicuro che la vita mi ridarà altri sette anni di cose positive.