L'intervento di Aurora Matteucci, Presidente della Camera Penale di Livorno, è stato uno dei più applauditi al Congresso dell'Unione delle Camere Penali. È stata, insieme ad altre colleghe (Monica Gambirasio, Valentina Tuccari, Stefania Amato, Luana Granozio, Valentina Alberta, Lodovica Giorgi, Maria Brucale, Alice Poeta, Rosaria Manconi, Giusi Ferro, Angela Compagnone,Federica Pugliese, Elena Del Forno, Rachele Nicolin, Romina Cattivelli, Veronica Zannotti, Laura Maria Rita Negri, Francesca Grusovin, Raffaella Guernieri, Marina Alberti) e alle camere penali di Milano, Parma, Piacenza, Vicenza, Modena, La Spezia promotrice di una mozione, sostenuta anche dall'Osservatorio Pari Opportunità, che impegna la Giunta ad «assumere ogni iniziativa tesa a favorire la più equa partecipazione delle donne in seno all'Ucpi». «È stata una battaglia frutto di un lavoro di squadra di cui sono stata solo un megafono - spiega l'avvocato Matteucci - È un invito rivolto alla Giunta affinché si monitori con una sensibilità maggiore l'applicazione paritaria di un criterio meritorio. In alcuni settori le quota rosa sono state necessarie, non abbiamo un pregiudizio contro di esse; riteniamo però che nella nostra associazione, dove dei cambiamenti sono già in atto se si pensa alla vice-presidenza affidata alla collega Rubini, non ci sia bisogno di una modifica statutaria affinché vengano assegnati incarichi in quanto donne. L'invito è rivolto anche a noi stesse per essere artefici in prima persona del cambiamento». Sulle ragioni di questa disparità, aggiunge, «non sono una sociologa, difficile rispondere. Quello che posso dire è che al mutamento può contribuire molto l'esempio: vedere un'altra donna che ambisce a ruoli di rappresentanza può creare un circolo virtuoso e un effetto domino». Al momento su 131 Camere Penali solo 11 hanno al vertice una donna. Ma l'intervento di Matteucci è stato molto apprezzato anche per un altro motivo: «Nel nostro Paese, in molti settori - prosegue - soffriamo degli effetti negativi dell'uso simbolico del processo penale e del vittimocentrismo, per cui si scarica sull'imputato una battaglia ideologica. Ma il luogo per queste battaglie è la politica, non l'aula di tribunale. In particolare, la violenza di genere ha bisogno di risposte in ambito sociale e culturale, non nel processo penale. Oggi invece, con la complicità della stampa che si concentra solo sulla fase delle indagini preliminari e non sul processo, svilendo il principio di presunzione di innocenza, si crea nella collettività l'aspettativa sociale di una condanna. Se poi arriva una assoluzione, questa risulta incomprensibile, scatenando anche insulti ai giudici, alterando così l'autorevolezza della decisione giudiziaria». «Le faccio un esempio: pochi giorni fa un carabiniere è stato assolto dal Tribunale di Livorno dall'accusa di violenza sessuale. Questa decisione ha suscitato numerose critiche perché ci si aspettava la condanna. Quello che dispiace è che non si riesca a comprendere come un Collegio giudicante possa aver valutato l'inattendibilità della persona offesa in base ad un ragionamento ben più complesso di quello riportato dai media. Le sentenze si possono criticare ma andrebbero lette per intero prima di esporle al pubblico ludibrio insieme addirittura al nome e cognome del giudice estensore. Lungi da me negare il fenomeno della violenza di genere, anzi, quello che in cui però crediamo noi tutte è che questi temi vadano affrontati attraverso un passo di cambio culturale». Spesso proprie le donne avvocato vengono insultate quando difendono un imputato per reati di violenza di genere: «Questo - sottolinea - è il sintomo della malattia di cui parlavo: concentrarsi solo sull'indagine che già condanna l'indagato sulla stampa. E poi il diritto di difesa e un giusto processo, previsti dalla nostra Costituzione, vanno garantiti a tutti a prescindere dal reato commesso e dal genere del legale che lo assiste. Si è dimenticata la complessità dei fenomeni purtroppo, si vede tutto o bianco o nero, soprattutto a causa dei media. Invece il compito del difensore è quello di far transitare nel processo penale quelle complessità». Se c'è già un colpevole, esiste una vittima senza se e senza ma: «Non ho apprezzato la sentenza 11 gennaio 2021 della Corte Costituzionale - conclude Matteucci - per cui si conferma la ragionevolezza del  patrocinio a spese dello Stato, a prescindere dalle condizioni di reddito, per la persona offesa dai reati di violenza di genere come concreto sostegno per "incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità". Il fenomeno dell'emersione di certi reati è molto più complesso e comporta due effetti. Il primo: si accredita una patente di credibilità immediata alla persona offesa, prima ancora del processo. Vittima e verità non sono precedenti al processo. Due: si identifica la donna solo ed esclusivamente come una vittima, non in grado in maniera autonoma di attribuire a sue spese fiducia in suo legale».