«La giustizia è una cosa divina, peccato che sia affidata agli uomini». Avevo appeno superato il concorso per l’ingresso in magistratura e mi colpirono queste parole di un mio lontano parente, lo zio Luigi, un vecchio magistrato che aveva visto la guerra mondiale e che era poi stato protagonista di importanti processi contro il banditismo e la mafia delle campagne. Quella frase, espressione di fede popolare e del tipico pessimismo (o realismo) siciliano, mi è tornata in mente molte volte nel corso dei miei quarantacinque anni in magistratura e dei miei sforzi di "fare giustizia". Non bisogna cadere nell'errore - favorito dai toni che facilmente assume il dibattito pubblico sul tema - di ritenere che il compito "divino" di amministrare la giustizia sia affidato ai soli magistrati né, tantomeno, come troppo spesso si vuol far apparire, ai soli pubblici ministeri. Quello della giustizia è un sistema complesso, il cui funzionamento può essere garantito solo dalla integrazione tra componenti diverse che sono le forze di polizia, i magistrati, il personale amministrativo, gli avvocati, nonché i cittadini nei vari ruoli di giudici popolari, periti, consulenti, testimoni e così via. (...) La complessità risulta ancora maggiore se si considera il ruolo rivestito dalla politica: sono infatti Governo e Parlamento che stabiliscono le regole e attribuiscono (o dovrebbero attribuire) le risorse necessarie. Tra tutti questi poli che rappresentano esigenze, interessi, finalità diversi - e perciò, come è proprio di un sistema democratico, periodicamente in tensione tra loro - si è sviluppato in questo periodo il dibattito sulla riforma della giustizia con l'obiettivo fondamentale di ridurre i tempi dei processi, anche penali, potendo finalmente contare su risorse adeguate, quali quelle previste nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un'occasione storica, forse irripetibile, per un apparato giudiziario afflitto da una cronica carenza di risorse (...). Alle peculiarità che incidono sulla già affannata gestione della giustizia, va aggiunto un ulteriore elemento, di cui si trova raramente riscontro nel dibattito pubblico: gli avvocati che operano in Italia sono ormai 240.000 a fronte, per esempio, dei 50.000 colleghi attivi in Francia. Questo fatto, oltre a ridurre inevitabilmente la qualità media delle prestazioni professionali e a innescare una concorrenza feroce all'interno della categoria, determina il moltiplicarsi del numero dei processi, la dilatazione della loro durata e, ancor più evidente, il proliferare di impugnazioni. Inoltre, come ha evidenziato l'economista Gloria Bartoli, l'Italia conta 55.000 avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione, a fronte dei logo della Francia e dei 5o della Germania, perché in quei Paesi gli avvocati devono scegliere se patrocinare dinanzi alla Suprema Corte o ai giudici di merito. Sono, cioè, gli avvocati per primi a operare una selezione dei ricorsi, consentendo così ai giudici di ultima istanza di assolvere alla loro funzione primaria di assicurare l'uniformità e la prevedibilità della giurisprudenza. Un compito oggi impossibile perla nostra Cassazione, chiamata a pronunziare una media di oltre 50.000 sentenze l'anno, dovendo porre oltretutto, ai fini del controllo sulle motivazioni e della decisione dei ricorsi sulle misure cautelati, una significativa attenzione alle particolarità del caso concreto.

Etratto dal libro “Fare Giustizia” di Giuseppe Pignatone